Lo Stato fa l’editore: all’anno spende 150 milioni

Lo Stato fa l’editore: all’anno spende 150 milioni

Nei giorni scorsi ben 64 direttori hanno espresso le proprie preoccupazioni al presidente Giorgio Napolitano in merito al serio rischio di tagli al fondo per l’editoria con una lettera-appello. A motivare la protesta e la richiesta di interventi presso il Governo affinché i tagli siano revocati, la preoccupazione di tutelare il pluralismo dell’informazione. L’appello è stato subito raccolto da Napolitano, che con una missiva di risposta ha garantito una presa di posizione in materia chiara. A mancare è tuttavia una seria discussione in grado di riflettere su quanto accade oggi, in materia di finanziamenti pubblici per i giornali e riviste. Il vero problema, sostanzialmente, è che ogni tipologia di finanziamento statale vizia ed altera quelli che sono gli equilibri di mercato; facilmente comprensibile che chi ottiene risorse in più, parta avvantaggiato rispetto ad altre realtà editoriali che preferiscono rimanere sul mercato con le proprie forze e senza aiuti che non siano quelli legati alla pubblicità ed alla fedeltà dei lettori.

A pagare la sopravvivenza di buona parte dei quotidiani italiani, ça va sans dire, sono i contribuenti. La domanda di fondo è: perchè tutti i cittadini devono contribuire all’uscita di pubblicazioni delle quali, spesse volte, non condividono neppure in parte opinioni ed idee? Occorre precisare, anzitutto, che la stampa in toto gode, senza esclusione, di sostegni particolari. Si tratta tuttavia di agevolazioni sui servizi piuttosto modeste, spesso legate esclusivamente ai contratti d’affitto agevolati e rimborsi spese per i costi della luce e dell’utilizzo del telefono. Si tratta solamente della minuscola punta di un iceberg mastodontico, che ogni anno costa allo Stato cifre ragguardevoli che oscillano statisticamente (ogni anno è una storia a sè) tra i 450 ed i 700 milioni di euro.

Per capire come si è arrivati a queste cifre, occorre fare un passo indietro. La prima legge che stabilisce quote di finanziamenti pubblici per l’editoria risale al 1981, sotto la presidenza di Arnaldo Forlani, leader della Dc. Il testo, specifica che qualsiasi quotidiano faccia richiesta di finanziamenti statali debba avere come requisito imprescindibile quello di essere riconosciuto un giornale ufficiale di partito. La spesa annua, arriva subito a toccare l’equivalente di 28 milioni di euro, media che si protrae per sei anni. In data 25 febbraio 1987, la nuova legge sulla “Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l’editoria” introduce una novità che, di fatto, rende possibile a tutti o quasi di accedere ai finanziamenti pubblici, con conseguente impennata di costi.

La soglia minima dei deputati necessari per dichiarare che un foglio è organo di partito, infatti, si abbassa a due soli parlamentari. Cominciano così a nascere testate di ogni tipo, che si rifanno alle più improbabili formazioni istituzionali, con il solo scopo ultimo di attingere ai soldi messi a disposizione dallo Stato. Questo sistema, ha consentito non solo il fiorire di realtà editoriali inesistenti (introvabili nelle edicole e con attività di pura facciata), ma anche la costruzione di mentalità clientelari in grado di rapporti bidirezionali tra politica e carta stampata che hanno sempre più avvelenato l’editoria. Nel 2001, la legge cambia di nuovo: per poter continuare ad usufruire dei finanziamenti, è necessario diventare una cooperativa a tutti gli effetti ma senza obblighi di mutualità, contrariamente alle vere coop. come il quotidiano il manifesto. Con un decreto legge contenuto nella manovra finanziaria del 2001, la legge assume infatti connotati più restrittivi, lasciando però la scappatoia di cui sopra: le imprese editoriali che diventano legalmente cooperative, potranno seguitare a beneficiare dei contributi. Un escamotage che verrà utilizzato da ben 17 giornali su 31, seppure con modalità differenti.

Mentre tanti trasformano infatti la veste prettamente giuridica dell’impresa in cooperativa, molti altri cedono la testata ad una società cooperativa creata ad hoc. I primi beneficiari sono i giornali organi di partito o pseudo tali, che raggiungono quota 22. Tra i vari Il Riformista, L’Opinione delle Libertà e Il Denaro, oltre a Il Foglio e Libero. Quest’ultimo, nasce come Opinioni Nuove – Libero Quotidiano, fondato da Vittorio Feltri, e per ricevere i contributi statali viene stretto un accordo con il Movimento monarchico italiano (Mmi). Come riporta il sito del partito, “la testata Opinioni Nuove, di proprietà della Cooperativa Alberto Cavalletto (formata da esponenti dell’Mmi) viene affittata alla Vittorio Feltri Editrice srl per la durata di cinque anni. In cambio, la Direzione di Libero si “impegna a sostenere la linea politica del Movimento”. Il Foglio di Giuliano Ferrara, invece, è stato tra i primi – nel lontano 1997 – a sfruttare l’opportunità dei contributi statali, trasformando il giornale d’opinione (tra gli editori Veronica Lario, moglie di Berlusconi, e il deputato del Pdl Denis Verdini) in un organo stampa di partito.

Il minuto ma pungente Foglio, diventa “Organo della Convenzione per la Giustizia”, un gruppo composto dal senatore e filosofo di Forza Italia Marcello Pera e Marco Boato, Partito Radicale e Verdi. L’anno seguente alla fondazione del quotidiano, Boato interrompe il sodalizio con Pera e viene rimpiazzato da Sergio Fumagalli, esponente dei Socialisti Democratici Italiani. Con questi iter burocratici, lo Stato italiano è arrivato a spendere la bellezza di 667 milioni di euro all’anno. Un minimo cambio di rotta avviene nel 2008, quando il governo lavora su un decreto poi approvato il 25 giugno: viene effettuato un taglio abbastanza consistenti ai fondi dell’editoria definiti diretti, solitamente calcolati sull’entità delle tirature ed il numero di copie effettivamente vendute. Mentre i tagli ai finanziamenti indiretti (trasporto, carta e spese telefoniche) hanno quasi toccato l’osso, aggirare i regolamenti approssimativi dei fondi diretti è ancora semplice: il numero di tirature e di copie vendute di un quotidiano, determina anche l’ammontare della cifra complessiva destinata a coprirne le spese.

Questa consequenzialità logica fa sì che i quotidiani stampino in maniera spesso indiscriminata – salvo poi regalare numerose copie a scuole, alberghi, metropolitane – per raggiungere la soglia minima di vendite stabilite per poter poi usufruire dei fondi. L’effetto immediato dei tagli, che potrebbero essere messi in atto con intensità ancora maggiori entro i prossimi mesi, provocherà la chiusura di alcune testate importanti e che da sole faticosamente riescono a sostentarsi, uno su tutti il manifesto. Le cifre abnormi che i contribuenti destinano ogni anno alle più disparate pubblicazioni editoriali, serie o meno serie, rischiano però di diventare facile preda della mentalità antipolitica imperante. È vero che, adducendo come scusante il pur nobilissimo principio della garanzia alla pluralità d’informazione, sono stati elargiti finanziamenti a dir poco mostruoso; è altresì vero che ci sono squilibri interni al mondo tecnico dell’editoria che comportano sempre più l’apertura di una voragine poco incoraggiante.

Senza una legge adeguata in materia, lo Stato si trova ogni anno a dover sborsare soldi su soldi per mantenere le testate minori. Questo avviene a causa della sproporzione totale con la quale la pubblicità viene diluita: il 75% degli introiti pubblicitari, infatti, sono destinati alla televisione, ed in percentuale attorno al 25% esclusivamente ai grandi gruppi come Mondadori ed Rcs. Logico che testate minori restino escluse dal grande giro pubblicitario che di fatto, assieme al finanziamento statale, determina lo stato di salute di ogni giornale. Senza fondi, i posti di lavoro in bilico sono migliaia. Sarebbe sufficiente regolare e limare le norme in vigore, vigilando sull’operato effettivo dei quotidiani.

Alcune pubblicazioni, si veda L’Avanti! del latitante Valter Lavitola, hanno per anni ricevuto finanziamenti onerosi per senza essere neppure in edicola regolarmente come si conviene ad un quotidiano. Paradossalmente, azzardando un paragone rischioso, in Europa i quotidiani non ricevono alcuna sovvenzione, eppure godono di buona salute e le condizioni dei giornalisti sono nettamente migliori delle nostre. Un dato fondamentale da tenere presente, infatti, è che nonostante la fittissima pioggia di finanziamenti che cadono copiosi su giornali e giornaletti, la condizione reale dei giornalisti medi è sempre peggiore: collaborazioni mal retribuite, difficoltà nel trovare un lavoro stabile ed una pensione sicura.

Il mondo dell’editoria italiana, più che di tagli indiscriminati e che colpiscono alla cieca solo le piccole realtà del settore, necessiterebbe di una grande riforma strutturale: cominciando dall’abolizione dell’ordine dei giornalisti ed arrivando a considerare con serietà il futuro dell’informazione sul web. Internet è la cruna dell’ago dentro la quale passerà la storia del giornalismo di un futuro medio-breve, nel quale il suo utilizzo sarà assolutamente complementare alla classica edizione cartacea dei quotidiani. In definitiva, sforbiciare senza nuove proposte per modificare l’assetto editoriale e strutturale della stampa, significa dare una soddisfazione solamente simbolica agli iper-critici professionisti della piazza. Una magra vittoria per tutti, giornalisti e lettori compresi.