Una certa predisposizione per l’assalto alle ambasciate l’Iran degli ayatollah ce l’ha da tempo: dal 4 novembre 1979, per la precisione. Da quando, cioè, all’indomani della rivoluzione khomeinista fu occupata la rappresentanza diplomatica americana e 52 cittadini statunitensi furono trattenuti in ostaggio per 444 giorni, fino al 20 gennaio 1981.
«Una turba dì studenti, circa 400 secondo la radio locale (un centinaio secondo fonti Usa) ha preso d’assalto ieri l’ambasciata americana a Teheran, occupando la sede diplomatica e prendendo in ostaggio funzionari e impiegati: “almeno cento” secondo l’emittente, 49, stando a fonti diplomatiche. A quanto ha riferito la radio iraniana, i marines addetti al servizio di sorveglianza della missione hanno cercato di contenere i dimostranti facendo uso di candelotti lacrimogeni, ma sono stati sopraffatti dopo circa tre ore. Gli studenti esigono che il governo di Washington consegni il deposto Scià, negli Usa per cure mediche, alle autorità iraniane». Così Stampa Sera del 5 novembre 1979 dava la notizia dell’occupazione dell’ambasciata americana e dell’inizio di una crisi internazionale lunghissima che avrebbe provocato la non riconferma del presidente Usa, il democratico Jimmy Carter, con l’elezione al suo posto del repubblicano Ronald Reagan.
Il giorno successivo sarebbe stata occupata anche la sede diplomatica britannica a Teheran, ma la faccenda di sarebbe chiusa in breve tempo: sono gli stessi studenti ad annunciare che l’edificio sarebbe stato sgomberato al più presto.
Con gli americani, invece, la situazione precipita. Vengono occupati anche i consolati di Tabriz e Shiraz, e la vicenda «segna il punto più basso degli incerti rapporti tra gli Stati Uniti e l’Iran», scrive la Stampa del 6 novembre. Sei dipendenti dell’ambasciata evitano la cattura rifugiandosi nelle rappresentanze diplomatiche di Svizzera a Canada. Ci rimarranno tre mesi. Il parlamento di Ottawa si riunisce in seduta segreta per deliberare la concessione di un passaporto canadese (provvisorio) ai cittadini Usa nella loro ambasciata, perché potessero uscire dal paese (e sarà il Canada a fare da tramite tra Washington e Teheran).
Tredici ostaggi, donne e uomini di colore, vengono rilasciati quasi subito, a metà novembre, in quanto appartenenti a «minoranze oppresse», secondo la definizione degli studenti islamici che li tengono prigionieri. In luglio viene rilasciato Richard Queen, che nel frattempo si è ammalato di sclerosi multipla. Nonostante i proclami ufficiali, secondo i quali gli ostaggi erano «ospiti» e pertanto trattati come tali, emergerà invece che le condizioni in cui vengono trattenuti sono durissime: finte esecuzioni, pestaggi, lunghi periodi di isolamento, prigionieri legati o ammanettati per lungo tempo. Si registrano almeno due tentativi di suicidio e quattro di fuga.
Tra gli studenti che organizzano l’assalto all’ambasciata e trattengono gli ostaggi è possibile ci sia stato anche l’attuale presidente iraniano, Mahmud Ahmadinejad. Il governo di Teheran nega, ma fonti dell’opposizione confermano che quell’uomo con la barba che tiene sottobraccio un ostaggio bendato e con le mani legate, sia proprio lui, il presidente. Subito, all’indomani della rivoluzione iraniana (inizio 1979) Ahmadinejad, che studia nell’Università di Scienza e tecnologia, diventa uno dei capi degli studenti khomeinisti. Sembra che in un primo tempo quest’organizzazione volesse occupare l’ambasciata dell’Urss, potenza atea e comunista, e che quella degli Usa sia stata una specie di seconda scelta. Sempre fonti del dissenso iraniano affermano che l’attuale presidente sia stato il responsabile della sicurezza durante l’occupazione dell’ambasciata, un ruolo essenziale che lo porterà, dopo la fine della vicenda, a entrare nelle forze speciali della procura islamica rivoluzionaria della prigione di Evin. Se fosse vero, si potrebbe in parte spiegare il perché del suo prolungato interesse per le ambasciate.
Il presidente Usa Jimmy Carter all’inizio della crisi dichiara che non intende fare uso della forza. Ma poi, di fronte allo stallo della situazione, cambia idea e dà il via libera al blitz. Solo che finisce malissimo: un elicottero Usa si scontra in volo con un aerocisterna C130, uccidendo otto soldati americani e un cittadino iraniano (presumibilmente una guida). L’operazione “Artiglio d’aquila” (questo il nome in codice) fallisce miseramente il 25 aprile 1980, quando gli elicotteri decollati dalla portaerei Usa Nimitz devono fermarsi nel deserto iraniano per una serie di avarie. Proprio mentre vengono riforniti di carburante per ritornare dalla missione ormai annullata, accade l’incidente. Dopo il fallito blitz gli ostaggi, che si trovavano ancora all’interno dell’ambasciata Usa, vengono spostati in luoghi diversi del paese.
A risolvere la crisi ci pensano gli eventi internazionali: prima l’invasione sovietica dell’Afghanistan (24 dicembre 1979), con la dimostrazione pratica di quanto Mosca potesse essere pericolosa, e poi l’aggressione dell’Iraq all’Iran (22 settembre 1980), con l’Iraq di Saddam Hussein ampiamente appoggiato da Usa e Occidente in funziona anti iraniana.
Tehran a questo punto sente il bisogno di essere meno isolata e i negoziati riceveranno un impulso definitivo. Ma non sarà Jimmy Carter ad accogliere gli ostaggi di ritorno a casa. La vicenda iraniana influisce profondamente sulla campagna elettorale Usa, Teheran lo sa e contribuisce scientemente a non far rieleggere Carter. La tempistica è molto significativa: la liberazione degli ostaggi, consegnati agli algerini che facevano da mediatori, avviene il 20 gennaio 1981, esattamente alla fine del discorso di insediamento del neoeletto Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti. Non appena il comandante dell’aereo che li sta portando in Algeria dice attraverso l’altoparlante di bordo che è stato abbandonato lo spazio aereo iraniano, i 52 ostaggi cominciano a urlare, si abbracciano e si lasciano andare a scene di giubilo. L’incubo è finito.