Se ne sono andati

Se ne sono andati

Carlo Peroni

(24 novembre 1929 – 13 dicembre 2011)

Di Senigallia, aveva 82 anni, un nome d’arte (Perogatt), e per almeno mezzo secolo ha spaziato fra fumetti, cartoni animati, giornali «demenziali», sketch televisivi e pubblicitari che venivano ripetuti come slogan esistenziali.

Il più celebre, del 1963, inventato in solido con altri due bravissimi artigiani del mestiere – Nino e Toni Pagot – piazzava nel pieno di una pubblicità e di un programma popolarissimo (Carosello), il termine “ingiustizia”. Mica male negli anni del boom economico, e dei consumi un po’ più alla portata di tutti. Quella parola veniva pronunciata mestamente dalla vocina di un pulcino nero, con gli occhi azzurri e il becco giallo (colori non visibili nella tv di allora): si lamentava, la creatura, di non essere amata per il suo colore, e per la sua piccolezza, intesa come infanzia.

Concludeva, senza sperare, con un: «È un’ingiustizia, però…». Il suo nome – Calimero – era quello di un santo, ma lì ispirava solo compassione da emarginato, e bisogno di rima (con «pulcino nero»).
Il riscatto arrivava con una rivelazione successiva, decantata da una voce femminile fuori campo, più materna che sensuale: «No, Calimero, sei solo sporco…». Il pulcino veniva lavato in un batter d’occhio e, diventato bianco e pazzo di gioia, gridava al massimo del falsetto: «Ava, come lava!».

Ava era il detersivo salvifico: sarebbe diventato un urlo interiore per milioni di consumatori e di donne di casa che potevano finalmente permettersi la lavatrice. Ma era anche il nome di Ava Gardner, una delle bellissime di Hollywood (occhi verdi, da gattona, e, anche lei nera, unica, niente a che fare con il canonico “platinato”) che poco tempo prima, in Italia, era stata ripetutamente fotografata insieme al brunissimo, e bravissimo, e molto amato Walter Chiari.

Il pulcino e il suo lamento avevano subito passato i confini, come sigla doc dell’immaginazione italiana, e nei giorni scorsi – in memoria di Carlo Peroni – sono stati citati almeno in francese e in inglese, come si fa con i documenti ufficiali dell’Unione europea. Ma qui, di Peroni, si possono ricordare altri passaggi: gli inizi, come restauratore di quadri e affreschi, e poi la collaborazione con la Rai, e un’infinità di collaborazioni a giornalini (si chiamavano così, senza spregiare nulla), come Topolino, Pecos Bill, Cucciolo, Tiramolla, e Tilt, la pioniera delle riviste “demenziali” italiane (creata con Alfredo Castelli).

Peroni è stato anche un artigiano di Cinecittà, negli anni Cinquanta: effetti speciali, in particolare. Un’arte, anche questa, molto italiana. Il pulcino che sarebbe nato poco tempo dopo aveva tutte le premesse per diventare un attore sicuro di sé. Con Ava come partner che lo lavava.
 

Uno spot Rai di Calimero

Ladislas de Hoyos

(27 marzo 1939 – 8 dicembre 2011)

Reporter e documentarista francese, con la passione e la conoscenza della Storia. La sua aveva radici europee, e a ventaglio: nato a Bruxelles, da un’antica famiglia austro-ungarica e di origini spagnole – von Hoyos zu Stichsenstein – e con un antenato abbastanza prossimo che, nel 1914, come capo di gabinetto del ministero degli Esteri a Vienna, si era dato molto da fare perché venisse data una lezione alla Serbia. Cioè per far scoppiare la Grande Guerra. Ma sarebbe stato uno zelante, e ferocissimo, funzionario nazista a diventare il principale soggetto di ricerca, e anche lo scoop, di Ladislas de Hoyos: Klaus Barbie, detto “il macellaio di Lione”, già nascosto in Bolivia, e poi, finalmente, estradato in Francia a rispondere di crimini contro l’umanità.

Ladislas era già una seria star della rete TF1 francese (responsabile dei telegiornali della notte, e poi delle otto e delle 13) quando si mise sulle tracce di Barbie, insieme a Beate Klarsfeld, la coraggiosa ragazza tedesca sposata a un ebreo francese – Serge Klarsfeld – che, come Simon Wiesenthal, si era dedicata a una missione di giustizia, cercando di stanare ogni possibile nazista nascosto nel mondo. 

Ladislas e Beate riuscivano, per primi, a denunciare la presenza di Barbie a La Paz, e a ottenere dal governo boliviano un incontro con lui in prigione: l’ex capo della Gestapo a Lione si presentava come era e come si era fatto passare, dopo aver cambiato nome (Klaus Altmann) e servito, da consigliere, i diversi dittatori boliviani, e anche la Cia. Un classico ex massacratore (soprattutto di ebrei francesi, ma anche di uno dei capi storici della Resistenza, e cioè di Jean Moulin) multiuso nello schema senza memoria (né decenza) della guerra fredda.

Il giuramento da sindaco di Ladislas de Hoyos

Ladislas de Hoyos aveva ascoltato, ragionato, e raccolto ogni dato utile per il processo in Francia: nel 1987, a Lione, un dibattimento storico – anche per la coscienza tutt’altro che pulita dello Stato francese – e concluso con un ergastolo esemplare. Difensore di Barbie era l’abilissimo avvocato franco-vietnamita Jacques Vergès: aveva patrocinato gli algerini durante la guerra coloniale, difendeva un Gauleiter nazista inchiodato da testimonianze ineccepibili. Un caso, sostanzialmente clinico, di come un certo tipo di sentimentalismo estremo (antioccidentale in senso lato) possa innestarsi sui banchi della difesa. Usando la Storia, e casi, diversissimi.

Da quel processo, e dai resoconti di de Hoyos (si parla di giornalismo ad alti livelli) sarebbe nato un film documentario, Il nemico del mio nemico, del regista Kevin Macdonald: ci sono tutte le vite di Klaus Barbie, con i favori, le protezioni, i passaggi del dopoguerra. Ci sono quarant’anni di storia mondiale, e la locandina del film presenta questi attori in particolare: Ladislas de Hoyos, Klaus Barbie, Beate Klarsfeld, Robert Badinter (il grande ex ministro della Giustizia di Mitterand), Jacques Vergès, Adolf Hitler. Nel 1997, Ladislas, per France Inter, avrebbe messo in piedi uno dei migliori programmi di documentari storici, chiamato, alla lettera, Les jours du siècle.

Fra le sue passioni, la politica, conseguente (ma non sempre) alla Storia: è stato due volte sindaco di Seignosse, nelle Landes, in Aquitania, dove è morto, di cancro, a oltre 72 anni.

Martina Davis-Correia

(1967 – 1° dicembre 2011)

Per salvare suo fratello Troy Davis, ucciso con un’iniezione letale in Georgia il 21 settembre scorso, erano intervenuti Jimmy Carter, Desmond Tutu, Benedetto XVI, 51 deputati del Congresso, e un ex direttore del Fbi. Per rendere giustizia a suo fratello – molto probabilmente innocente – ha lottato gli ultimi dieci anni della sua vita come una «extraordinary woman» (parole uguali, dei moltissimi che la conoscevano, o impegnate come lei contro la pena di morte). Era ammalata di cancro al seno dal 2000, quando suo fratello era nel braccio della morte da nove anni.

Le magliette azzurre con la scritta «I am Troy Davis», portate da migliaia di cittadini indignati da quell’omicidio, le aveva volute lei, ed erano, o sono, un’antica forma di lotta, di compassione, di condivisione. Io, noi, siamo l’ucciso, o il perseguitato, e indossiamo sulla pelle il suo nome, e la sua vita. E l’ingiustizia – a dir poco – che può ammazzare: Troy Davis era stato condannato a morte nel 1989 per l’uccisione di un poliziotto, ma sette testimoni dell’accusa avevano poi ritrattato, dicendo di essere stati minacciati dalla polizia. Uno di loro aveva perfino indicato il nome del probabile colpevole. 

Prima di essere steso sul lettino, Troy aveva ripetuto la sua innocenza, e chiedeva di continuare la battaglia per la verità. Ha avuto una sorella, Martina, che l’ha fatto come sanno fare in America: quando un caso, o una vittima di una procedura bieca (anche criminale, nemica di tutti i ragionevoli dubbi), diventa movimento, folla. In questo caso, il movimento degli americani abolizionisti (che cresce), la sezione di Amnesty International negli Stati Uniti, di cui Martina era una leader appassionata, e l’associazione per le “civil liberties” della Georgia, che aveva premiato Martina con un particolare riconoscimento. E tutti i gruppi organizzati – e indefettibilmente pacifici, e religiosi – dei neri georgiani, ma non solo. 

Quando le avevano diagnosticato il tumore, ha raccontato come le avessero dato meno di sei mesi di vita. Ha aggiunto poi due verità: «Sono andata avanti altri dieci anni», e per suo fratello, perché c’era «too much doubt in the details of his murder conviction». 

Il video di un’intervista a Martina Davis in cui parla del fratello

 https://www.youtube.com/embed/yZE2U1cETGo/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

Una volta ha avuto anche un’immagine straziante, ma difficile da dimenticare: «Se penso che mio fratello è stato ucciso con il veleno, e che io sono ancora viva perché mi iniettano del veleno…». Ha lottato per la ricerca sul cancro: per la prevenzione, l’educazione, il superamento delle barriere culturali, quando la malattia aggredisce. Il tutto in una precisa struttura, la National Black Leadership Initiative of Cancer.

Vent’anni fa, era stata infermiera, aveva curato i soldati americani feriti nella Guerra del Golfo. Un articolo ha ricordato questo suo primo incarico nella vita, così: «Martina was nurse during the first american invasion in Iraq». 

L’immagine di questa settimana è tratta dal Giara’s blog.
 

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