L’Europa fa un piccolo passo avanti verso il raggiungimento di una maggiore integrazione fiscale. Il Consiglio europeo di oggi ha infatti ratificato l’adozione del Fiscal compact, il patto che entrerà in vigore dal primo gennaio 2013. Ma, per un passo in avanti, se ne fanno alcuni indietro: la crisi in cui è piombata la Grecia e in cui rischia di arrivare anche il Portogallo morde ancora con forza. E, nonostante il cancelliere tedesco Angela Merkel abbia rimarcato più volte che «la strada intrapresa è quella corretta», i mercati finanziari continuano a essere nervosi. Il tempo è poco, la sfiducia molta.
Nel Consiglio europeo più disagiato degli ultimi anni, complice lo sciopero generale in Belgio, gli unici che sono contenti sono i tedeschi. Dopo una lunga trattativa, Berlino ha ottenuto che la discussione sull’ampliamento del fondo salva-Stati permanente, l’European stability mechanism (Esm) fosse posta ufficialmente nel prossimo vertice. In questa occasione si è ratificato solamente l’avvio dello Esm, come da previsioni anticipato di un anno, cioè nel luglio 2012. L’Esm avrà una dotazione di 500 miliardi di euro e solo in un secondo momento sarà completata la discussione sul suo incremento.
Quello di oggi doveva essere il summit del Fiskalpakt e così è stato. Nasce quindi il nuovo strumento di controllo della spesa pubblica. Il rapporto debito/Prodotto interno lordo non potrà superare il 60%, come già era secondo i parametri del Trattato di Maastricht. I Paesi che sforano questo requisito dovranno applicare un piano di consolidamento fiscale pluriennale e non ci saranno sconti per alcuna nazione. La regola d’oro, cioè il pareggio di bilancio, sarà vincolante per tutti i Paesi che vorranno aderire al patto, che in dicembre fece irritare a tal punto il Regno Unito che il premier David Cameron non siglò alcun documento. E così gli inglesi, con la compagnia della Repubblica Ceca, si sono sfilati dal patto, evitando di firmare e aderire. Non solo: il Fiscal compact ha fatto discutere la Polonia, che ha chiesto (e ottenuto) di poter essere presente ai summit, massimo due l’anno, del nuovo organismo sovranazionale che nascerà.
Gran parte del summit si è focalizzato sulla crescita economica. Lo sblocco dei fondi strutturali sarà utile, ma l’impressione degli analisti è che non sarà abbastanza. Come spiega la banca nipponica Nomura, «l’eurozona avrebbe bisogno di un Piano Marshall, ma non ce ne sono le capacità, né a livello politico né a livello economico». Preoccupa la disoccupazione, specie a livello giovanile. Per questo il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ha posto l’attenzione sul lavoro e le nuove risorse derivanti dai fondi strutturali, circa 82 miliardi di euro, saranno destinate a questo scopo in via esclusiva, come già oggi riportava il quotidiano torinese La Stampa.
I problemi dell’eurozona, quindi, restano. Anzi, come spiega Sony Kapoor, direttore del think-tank Re-Define Europe, si amplificano. Kapoor ha ricordato oggi che il processo verso la stabilità è tutt’altro che definito. Fra banche zombie considerate too big to fail, cioè troppo grandi per fallire, e una disciplina di bilancio che non è quasi mai rispettata, l’eurozona dovrà anche affrontare una recessione che rischia di peggiorare di giorno in giorno. Le stime di crescita economica, negli ultimi sei mesi, sono state tagliate due volte dal Fondo monetario internazionale e una dalla Commissione europea. E gli 82 miliardi di euro derivati dal riordinamento dei fondi strutturali sono considerati dalla maggioranza «troppo pochi».
A peggiorare la situazione ci ha pensato il Portogallo, il cui caso è esploso la scorsa settimana. Più volte il cancelliere tedesco Merkel e il numero uno della Bce Draghi hanno ribadito che la situazione della Grecia «è unica e del tutto straordinaria». Eppure, anche Lisbona è entrata nel mirino degli investitori. Questi sono sempre più convinti che il piano di salvataggio da 78 miliardi di euro varato nello scorso maggio non sia sufficiente per riportare il Paese alla normalità. Questa sfiducia si è tradotta oggi in un’impennata dei rendimenti dei bond governativi lusitani a dieci anni, che hanno superato quota 17 per cento.
Infine, la Grecia. Il Consiglio europeo ha reso noto che si terrà un summit specifico sulla situazione ellenica, probabilmente o l’8 o il 13 febbraio. Un accordo sulla ristrutturazione del debito, coinvolgendo in via volontaria i creditori privati, è vicino, come spiegano fonti bancarie. Ma l’impressione è che non sia ancora sufficiente. Uno studio della banca elvetica UBS ha evidenziato la sofferenza in cui si trova Atene. Anche in caso di uno swap di debito con nuovi bond ellenici dati con un coupon dello 0% (quindi non remunerati), il rapporto debito/Pil sarebbe del 125% a fine 2020. Troppo poco. Data l’assenza di misure per la crescita e la presenza di un impianto burocratico tanto elefantiaco quanto inefficiente, la troika composta da Fmi, Bce e Ue ha chiesto nuove riforme. Taglio di 150mila dipendenti pubblici, spending review sul settore sanitario, nuovi interventi sulle pensioni: sono queste le misure che il governo greco deve adottare se vuole la piena approvazione del secondo piano di salvataggio internazionale. Atene continua a resistere e rigetta l’idea di dichiararsi insolvente. Eppure, le soluzioni alternative potrebbero essere sempre meno.