A Parigi è finita in rissa. Lo scorso ottobre “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio”, il nuovo spettacolo della Societas Raffaello Sanzio è stato accolto al Théâtre de la Ville da una vigorosa protesta dei cattolici tradizionalisti: dai sit in di preghiera si è passati ai lanci di uova e ai tentativi di impedire con la forza la rappresentazione, fino all’arrivo della polizia. Il sindaco Delanoë ha schierato la città a fianco del suo teatro costituendosi parte civile contro chi “attenta alla libertà di creazione ed espressione artistica” ed il ministro della Cultura Mitterrand ha ricordato come questa libertà sia “un principio fondamentale… protetto dal diritto francese”. Ma anche il Cardinale André Vingt-Trois, Arcivescovo di Parigi e presidente dell’assemblea dei vescovi francesi, ha preso le distanze da “un gruppuscolo di lefevriani che trasforma la fede in un argomento per la violenza”.
Adesso tocca a noi: lo spettacolo, privato delle scene più controverse, è in scena al Teatro Franco Parenti di Milano dal 24 al 28 gennaio e la destra cristiana è già mobilitata. Al teatro sono arrivati insulti e minacce, compresi attacchi antisemiti alla direttrice Andrée Ruth Shammah. Cosa accade in scena lo ha raccontato la stampa in questi giorni: sotto lo sguardo penetrante di un’enorme riproduzione del “Salvator Mundi” di Antonello da Messina un figlio assiste il padre malato. Il vecchio è un Giobbe, un Everyman le cui feci riempiono la scena in un crescendo intollerabile. Al termine anche il volto di Gesù è oscurato ed appare sulla tela la scritta “You Are Not My Shepherd”, in cui però il “Not” resta semicancellato.
In numerose occasioni gli artisti hanno suscitato la reazione dei credenti: solo in ambito cristiano ricordiamo il “Piss Christ” di Serrano o la Rana Crocifissa di Kippenberger, “Je vous salue Marie” di Godard o la pièce “Golgota Picnic” di Rodrigo Garcia, fino alle campagne di Benetton. A chi conosce un poco il lavoro della Societas, oggi forse la realtà del teatro italiano più apprezzata all’estero, è evidente che si tratta di un caso diverso: non un’opera dissacrante, una provocazione illuminista o un’indagine sulle icone religiose nell’orizzonte del pop globalizzato ma un tentativo di confronto autentico, durissimo, con lo sguardo del Figlio. La tappa di un lavoro sulle radici della coscienza dell’Occidente che dura da anni e non ha mai proposto esiti concilianti. Lo spettacolo può anche essere un fallimento, ma chi lo colloca in un quadro di “relativismo” o “cristofobia” sbaglia bersaglio.
Molti contestatori hanno osservato che un eguale trattamento di simboli religiosi islamici avrebbe suscitato violenze anche più accese. Qualcosa di peggio si trova sempre e c’è da augurarsi che l’estremismo islamico, peraltro a fianco dei lefevriani in questa battaglia, non diventi un modello; ma soprattutto va ricordata la singolarità del Cristianesimo di fronte al corpo e all’immagine. Nella storia dei monoteismi Gesù è unico a farsi uomo e ad essere rappresentato come tale, anche e soprattutto nella sofferenza e nell’umiliazione. Non a caso Romeo Castellucci, il regista, accusa i suoi oppositori di essere “privi di fede cattolica persino sul piano dottrinario e dogmatico” e rivendica allo spettacolo un carattere “spirituale e cristico, ovvero portatore dell’immagine del Cristo. Gli escrementi sono metafora del martirio dell’uomo come condizione ultima, reale. Il volto di Cristo illumina tutto con la potenza del suo sguardo e interroga profondamente ogni spettatore”.
A noi milanesi, credenti o no, questa storia è familiare. Ci ricorda i quadroni del nostro Seicento con i merletti candidi dell’abito di San Carlo in mezzo al fango e agli appestati, Renzo e Lucia al Lazzaretto, e soprattutto ci ricorda Giovanni Testori, che fondò la sala di via Pier Lombardo insieme a Parenti, Shammah e Isella nel 1972. Viviamo in una città in cui fede e teatro si sono parlati per molti anni costruendo esperienze vitalissime sia sui palcoscenici istituzionali sia sulle scene più alternative. Anche in memoria di questo percorso e di questa identità Milano merita un dibattito degno di questo nome, che sappia gestire la problematicità di questo lavoro e la legittimità delle opposte posizioni; un dibattito in cui chi si sente ferito o semplicemente non apprezza aspetta la fine dello spettacolo per protestare e chi è entusiasta riconosce che la Societas prepara piatti difficili da mandar giù.