Così l’Europa si è consegnata alle agenzie di rating

Così l’Europa si è consegnata alle agenzie di rating

I mercati hanno sbadigliato, gli europarlamentari hanno risposto con il solito appello alle regole, ma le leggi europee lo dicono chiaro: dalle agenzie di rating non si prescinde. Alla riapertura delle contrattazioni dopo la raffica di declassamenti di Standard & Poor’s, il canovaccio si ripete. Nulla di nuovo: come sostengono molti analisti macroeconomici, il mercato ha già scontato gli effetti della mossa di S&P, e nelle sale operative ormai nessuno considera dirimente il giudizio espresso dalle tre sorelle del rating. 

Generalmente, secondo il principio tale per cui un emittente non può avere un merito creditorio superiore al proprio Stato di provenienza – nei giorni successivi all’azione sullo Stato le agenzie di rating contestualmente abbassano il voto a società strettamente legate al Paese declassato, come utilities e banche. Per Eni, Enel, Terna, Unicredit, Intesa Sanpaolo scendere alla tripla B+, livello superiore di soli due gradini (ovvero due “notch”) rispetto a BBB-, cioè il livello minimo affinché un emittente sia considerato in grado di ripagare i propri creditori (il cosiddetto “investment grade”), aumenterà di certo gli interessi sulle emissioni obbligazionarie, ma difficilmente comporterà una rivoluzione nei portafogli dei fondi italiani.

«Il mercato si è già liberato della carta italiana al di là del downgrade, perciò non mi aspetto grosse vendite se non sulla parte subordinata dei bancari. Certo, dipende anche dal risk management: alcuni grandi investitori istituzionali vendono se il giudizio è condiviso da almeno due agenzie di rating. In altre parole, dipende dalla capacità del fondo di valutare i fondamentali rispetto all’etichetta del rating» osserva Giovanni Fracasso, private banker presso Banca Albertini Syz. «Più che i fondi mi preoccupano le gestioni indicizzate o i grandi Etf americani sui titoli di Sato, che tollerano un rischio sovrano minimo pari ad A». Alcuni bond, come l’emissione di Campari a scadenza 2015, quella di Luxottica al 2014 e quelle Eni al 2015 e 2014, quotano tutti sopra la parità.

Caso diverso per le obbligazioni bancarie: oggi, seppure in una giornata di volumi molto sottili per via della chiusura di Wall Street per il Martin Luther King day, un broker svizzero sotto garanzia di anonimato ha spiegato a Linkiesta di aver visto pesanti vendite da parte di un asset manager inglese sul debito subordinato di Unicredit e Intesa Sanpaolo. 

Lo scetticismo unanime degli operatori nei confronti di S&P si concentra soprattutto su un dato: oggi Roma ha lo stesso merito creditorio di Dublino, che ha ricevuto aiuti all’Ue per 85 miliardi di euro, e presenta un deficit migliore di Parigi. «Dopo il declassamento degli Usa il rendimento dei Treasuries non ha fatto altro che ridursi mentre l’indice Standard & Poor’s ha guadagnato l’8%», nota Alessandro Frigerio, gestore di Rmj Sgr.

Insomma, il rating preoccupa soltanto i politici. Oggi il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble ha detto di voler accelerare l’iter per «stabilire i criteri di trasparenza e assicurare che le agenzie di rating non abbiano interessi economici» che possano interferire con le loro decisioni, dimostrandosi favorevole a un’agenzia di rating comunitaria. Una soluzione che non risolve però il vero problema, cioè l’automatismo con cui, in alcuni casi, il rating è applicato a fini regolamentari.

«Uno tra gli esempi più significativi di affidamento della regolamentazione sui rating è rappresentato dall’accordo c.d. “di Basilea 2” sui requisiti di capitale delle banche», scrive Luca Enriques, commissario Consob dal 2007, in un paper del 2010 in cui si spiega che: «Basilea 2, così come le disposizioni che ne hanno recepito i contenuti, indica gli standard che le banche devono rispettare per affrontare tre dei principali rischi connessi alla propria operatività: il rischio operativo, il rischio di credito – comprensivo del rischio di controparte – e il rischio di mercato».

Nelle nuove norme di Basilea III, ancora in fieri, a proposito del ricorso al rating esterno si legge che gli istituti di credito: «dovrebbero valutare le esposizioni, indipendentemente dal fatto che esse siano provviste di rating o meno, e determinare se le ponderazioni applicate a tali esposizioni, in base al metodo standardizzato, sono adeguate in relazione al loro rischio intrinseco». Anche se, sul lungo periodo, vale il principio per cui: «Se una banca investe in una particolare emissione cui è stata attribuita una specifica valutazione, la ponderazione del credito sarà basata su tale valutazione».

Con la direttiva CRD IV, Bruxelles recepisce gli standard di Basilea III, affermando: «i requisiti di capitale necessari ad ammortizzare il rischio di credito richiedono una misurazione dello stesso. A volte i rating esterni, seppure imperfetti, rimangono la migliore soluzione disponibile». C’è di più: la direttiva del Parlamento europeo dello scorso 8 giugno, nel modificare il regolamento 1060/2009, che amplia la legislazione europea in materia introducendo alcuni obblighi come quello di registrazione all’interno dell’Ue, evidenzia che banche, fondi e intermediari «possono utilizzare a fini regolamentari solo rating emessi da agenzie di rating stabilite nell’Unione e registrate conformemente al presente regolamento».

Un riconoscimento esplicito, così come nell’ultima risoluzione adottata da Strasburgo si ammette esplicitamente: «il problema-chiave (del sistema finanziario europeo, ndr) è la dipendenza dalle agenzie di rating». Poco dopo però si scrive: «se il rating esterno adempie uno scopo regolamentare, non dovrebbe essere classificato come opinione». Negli Usa, le agenzie di rating si sono sempre appellate alla protezione del primo emendamento: «Le nostre erano solo opinioni», hanno detto, e non devono essere prese come unica forma di valutazione della bontà di un investimento. L’Europa, invece, stenta ancora a riconoscerlo e scriverlo chiaramente sui Trattati.

Twitter: @antoniovanuzzo

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