La primavera del 2010 è stato un periodo caldo come pochi per il lavoro in Cina. Tra aprile e maggio, la serie di suicidi tra i dipendenti della Foxconn di Shenzhen (vedi su Linkiesta: Nella fabbrica degli iPhone è proibito anche suicidarsi) e lo sciopero dei lavoratori della Honda di Foshan hanno riportato ancora una volta all’attenzione dell’opinione pubblica cinese e internazionale la questione delle condizioni di lavoro nella “fabbrica del mondo”. Eppure, a differenza di quanto si era letto in occasione dei grandi scandali del lavoro in Cina del passato, questa volta il discorso dominante sui media e nell’accademia ha assunto una prospettiva completamente differente: finalmente, invece che della dimensione “passiva” dello sfruttamento, si è cominciato a discutere dell’aspetto “attivo” della lotta e della resistenza da parte dei lavoratori. Dopo un martellamento mediatico durato mesi, si è addirittura affermata l’idea che i lavoratori cinesi, soprattutto i giovani migranti nati negli anni Ottanta e Novanta, si sarebbero stancati di essere le vittime sacrificali dello sviluppo cinese e avrebbero iniziato a chiedere a gran voce salari dignitosi e condizioni di lavoro più umane.
Se la retorica del “risveglio dei lavoratori” appare in larga parte un’esagerazione non supportata da solide basi fattuali – scioperi e suicidi di protesta si verificano da sempre in Cina, la novità rilevante dello scorso anno è soprattutto l’attenzione che questi eventi hanno ricevuto da parte dei media cinesi – l’ascesa di una nuova generazione di lavoratori migranti nella fabbrica del mondo rimane un fenomeno dalle implicazioni sociali enormi, come dimostra il gran numero di articoli sull’argomento pubblicati sulla stampa e nelle riviste accademiche nello scorso anno. Eppure, impegnati come siamo a rincorrere il quadro generale, a volte rischiamo a dimenticarci che i giovani della Foxconn e della Honda, prima che lavoratori, sono ragazzi come tutti gli altri, persone con sogni, aspettative e speranze, qualcosa di più di semplici automi alla catena di montaggio. La loro identità di operai è solamente parte di una dimensione esistenziale più ampia, che in genere tende a sfuggirci. In fondo, chi sono questi giovani lavoratori? Quali sono i loro obiettivi nella vita? Che cosa sognano per il proprio futuro? Quanto sono consapevoli dei propri diritti? Dreamwork China azzarda alcune prime risposte a queste domande e lo fa lasciando parlare il più possibile i protagonisti di questa realtà, cosi difficile da tratteggiare in maniera esaustiva. Per realizzare questo video di poco meno di un’ora sono stati necessari mesi di ricerche. Per giorni abbiamo occupato uno studio fotografico nei pressi dell’ingresso meridionale della Foxconn di Guanlan, cercando di convincere i giovani lavoratori di passaggio a farsi fotografare e intervistare.
Dreamwork China (ita) from Cineresie on Vimeo.
Siamo stati negli uffici delle organizzazioni della società civile del Delta del Fiume delle Perle, cercando di capire le ragioni per cui fanno quello che fanno e i rischi che si trovano ad affrontare. Abbiamo visitato fabbriche e assistito ad attività di addestramento in cui si spiegava ai lavoratori come stabilire le proprie priorità nella vita e come servirsi del web per tutelare i propri diritti. Abbiamo intervistato attivisti maoisti, lavoratori che conoscono il diritto meglio di tanti avvocati, giovani che non hanno mai sentito nominare la parola “sindacato”, operai in fin di vita per malattie occupazionali o incidenti sul lavoro. Abbiamo seguito alcuni giovani fino al loro paese natale in occasione della Festa di primavera, girando un villaggio di campagna casa per casa, chiedendo ai giovani migranti che vi abitavano cosa pensano e cosa sanno del diritto e dei diritti. Parte del materiale che abbiamo raccolto in quei mesi alla fine è confluito in Dreamwork China.
Siamo riusciti a trovare le risposte che cercavamo? Sì e no. Da un lato siamo riusciti ad avvicinarci ad alcuni di questi giovani e a gettare uno sguardo obliquo sulle loro vite, dall’altro abbiamo capito, come già sospettavamo e com’è ovvio che sia, che la Cina non si presta ad interpretazioni semplicistiche configurate in termini di contrapposizioni nette. In quest’ottica, la stessa idea del “risveglio”, con le sue implicazioni generaliste, perde significato, mentre assumono importanza i dettagli, l’individualità, i sentimenti, le percezioni. Dall’insieme delle nostre esperienze emerge il quadro di una nuova generazione di lavoratori ventenni, spiazzati dalla vita nella megalopoli, ansiosi di uscire dalla fabbrica e ritagliarsi un proprio spazio nella società, magari aprendo un piccolo negozio o un’attività in proprio, «qualsiasi cosa purché non sia lavorare per un padrone», come ci ha detto uno di loro. Di fatto, risveglio o non risveglio, da questi ragazzi, impegnati a rincorrere i propri sogni in un ambiente indifferente e spietato come quello della “fabbrica del mondo”, convinti che un avvenire migliore sia a portata di mano e che basti lavorare duramente per raggiungerlo, traspare qualcosa di simile ad una stoica rassegnazione. O forse è semplicemente incoscienza?
(Oggi 26 gennaio il New York Times dedica un’approfondita inchiesta alle condizioni dei lavoratori di Apple in Cina. Vi riproponiamo una nostra inchiesta pubblicata nello scorso mese di ottobre.)
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