BRUXELLES – È la Germania, e soprattutto la sua politica deflazionistica sul fronte dei salari, la vera radice dell’attuale crisi economico-finanziaria in cui si dibatte l’eurozona. Non è un pamphlet antitedesco a sostenerlo, ma un “freddo” rapporto pubblicato dall’Ilo, l’Ufficio internazionale per il lavoro con sede a Ginevra, intitolato «Global Employment Trends 2012».
Ovviamente, l’ennesima brutta notizia, con le ennesime grame previsioni per l’anno appena iniziato, anche sul fronte occupazionale: per l’Ue e il mondo sviluppato nel suo complesso l’Ilo afferma che le «previsioni per la creazione dell’occupazione sono sostanzialmente peggiorate nel corso della metà del 2011», con la previsione di 43,5 milioni di disoccupati ovvero l’8,5% (medio) nel 2012. Cifra che può salire al 9% nel 2013 se l’economia continuerà a deteriorarsi.
Il rapporto dedica un intero box alla Germania, intitolato «Gli sviluppi salariali tedeschi e i guai dell’euro». L’Ilo parla chiaro: «la crescente competitività degli esportatori tedeschi sempre più viene identificata come la causa strutturale alla base delle recenti difficoltà dell’eurozona. Mentre i costi per unità di lavoro tedesco calavano rispetto ai concorrenti, la crescita si è trovata sotto pressione nelle altre economie, con conseguenze avverse per la sostenibilità della finanze pubbliche».
L’Ilo parte da lontano, dalla riunificazione tedesca del 1990 e dalla follia di Helmut Kohl di imporre un cambio 1:1 tra marco occidentale e marco orientale – con conseguente tracollo delle imprese tedesco-orientali e inflazione in ripresa. La Bundesbank alzò i tassi per contrastarla, mentre il marco tedesco schizzava in alto fino a far saltare, nel 1993, lo Sme (il Sistema monetario europeo). Furono anni duri per la Germania – gli anni in cui si parlava del «paziente tedesco» – con perdita di competitività delle imprese e aumento della disoccupazione.
La soluzione trovata dal successore di Kohl, Gerhard Schröder, fu l’inizio dei mali europei: visto che a partire dal 1995 – proprio l’anno in cui il marco toccò livelli record – i cambi erano ormai bloccati in vista del lancio nel 1998 dell’Unione Monetaria (e poi dell’euro effettivo nel 2002), e dunque non poteva ricorrere alla svalutazione della moneta, il cancelliere puntò sulla svalutazione interna. Come? Semplicemente cominciando ad abbassare i salari, per procedere poi, nel 2003, a drastiche riforme del mercato del lavoro con una netta riduzione dei salari di ingresso soprattutto ai livelli più bassi. Berlino ridusse così i costi del lavoro e rilanciò la competitività dell’economia tedesca.
«La maggior parte delle riforme (di Schröder, ndr) – si legge nel rapporto – essenzialmente condusse a una deflazione dei salari nei servizi, dove per lo più apparivano nuovi posti di lavoro a basso costo». Il problema, scrive ancora l’Ufficio internazionale per il lavoro, è anzitutto che «questa deflazione dei salari non solo ha avuto un impatto sui consumi privati, che rimasero indietro di oltre l’1% rispetto ad altri paesi dell’eurozona tra il 1995 e il 2001, essa ha anche portato a un aumento delle diseguaglianze, a una velocità mai vista, neppure subito dopo la riunificazione».
L’impatto però fu molto negativo anche per i partner eurozona della Germania. «A livello europeo – scrive ancora l’Ilo – (la deflazione dei salari ndr) ha creato condizioni per un prolungato crollo economico in quanto altri stati membri sempre più vedono drastiche politiche di deflazione dei salari come la soluzione alla loro mancanza di competitività. Questo è ancor più sconfortante in quanto non è chiaro fino a che punto queste politiche di deflazione economica in Germania abbiano contribuito a più alti livelli di occupazione».
Il colosso tedesco si è ripreso, insomma, ma senza portare con sé, se l’Ilo ha ragione, un beneficio economico per il resto d’Europa. Semmai ha gonfiato ulteriormente il grosso surplus della bilancia commerciale tedesca a scapito dei vicini. I quali rischiano, anzi, proprio per imitare la Germania, di avvitarsi sempre più in una spirale negativa di salari sempre più bassi, consumi in calo e una crescente spaccatura tra poveri e ricchi. Un monito su cui chi si accinge alle riforme del lavoro dovrà senz’altro riflettere.