Secondo l’Istat, il 59,3% delle persone con un’interruzione coniugale alle spalle, nel 2009, ha concluso l’iter legale di separazione davanti al giudice. Il 14,6% non è ancora arrivato alla conclusione del procedimento, mentre il 26,1% è solamente separato di fatto. Se poi ci sono figli minori, c’è una più alta propensione alla formalizzazione: quasi il 75% delle separazioni di genitori con almeno un figlio vede l’avvio di un procedimento legale, a fronte di un 63% di coppie senza figli.
Nel 2009 si sono concluse consensualmente l’85,6% delle separazioni e il 72,1% dei divorzi, mentre il procedimento giudiziale riguarda più chi ha al più la licenza elementare (23,6%) e chi aveva figli minori al momento della rottura (20,7 per cento). Il 66,4% delle separazioni e il 60,7% dei divorzi coinvolgono coppie con figli avuti durante il matrimonio. Nel 2006 la legge 54/2006 ha introdotto l’istituto dell’affido condiviso dei figli minori come modalità ordinaria. Ed ecco che, secondo l’Istat, nel 2009 l’86,2% delle separazioni di coppie con figli ha previsto l’affido condiviso contro il 12,2% dei casi in cui i figli sono stati affidati esclusivamente alla madre. Fin qui i numeri. Ma la realtà degli affidamenti è differente nei fatti, con i figli che passano la maggior parte del tempo con la madre. Ne parliamo con l’avvocato Mirella Serra del Foro di Roma.
Qual è la situazione oggi in Italia, avvocato?
La legge 54/2006 è stata una riforma formalmente voluta da tutti perché espressamente basata sul principio della paritetica responsabilità dei genitori nei confronti dei figli. La normativa, infatti, prevede come regola l’affidamento condiviso e l’esercizio congiunto della potestà genitoriale e prevede che il giudice ripartisca i tempi di permanenza dei figli presso ciascun genitore, consentendo dunque astrattamente anche una paritaria ripartizione. Ma in concreto questa ripartizione paritetica a cui allude il termine “affido condiviso” non si è verificata, se non in minima parte.
Perché?
Ci sono resistenze di vario genere: principalmente di carattere culturale e pratico. Di fatto il genitore che si occupa prevalentemente dei figli e presso il quale essi hanno la stabile residenza – che nella maggioranza dei casi è sempre la madre – non viene più chiamato affidatario ma “collocatario”. Una definizione assente nel testo di legge ma utilizzata nel linguaggio degli addetti ai lavori per individuare quella funzione di prevalente accudimento quotidiano della prole non più espressa dal termine “affidamento”. Certo negli ultimi tempi abbiamo notato un certo ampliamento dei tempi di permanenza dei figli presso il padre, ma siamo lontani da una ripartizione paritaria. In alcuni casi sono i padri a non volerla e a non offrirla. In altri, quando la chiedono, c’è resistenza spesso da parte della madre, ma anche dei magistrati. Perché si ritiene che siano assolutamente da evitare modalità che impongano ai figli continui spostamenti: i cosiddetti “minori con la valigia”.
Ci sono osservatori e uomini di scienza che dicono che non ci sono prove scientifiche per ritenere l’alternanza un male.
È vero, non tutti sono contrari. In Italia potremmo fare una valutazione forse tra quindici anni, ma sempre che si diffonda l’applicazione di un simile regime che consenta di percepirne gli effetti. Per ora i casi non sono tanti ma se vi sono le giuste condizioni si è riscontrato che funziona. Intanto devono essere entrambi i genitori a volere questo regime e viverlo bene, perché ciò si riverbera positivamente sui figli. Io stessa ho seguito alcuni casi, di cui alcuni persino precedenti all’introduzione dell’affidamento congiunto o condiviso, in cui il padre in costanza di matrimonio si era sempre occupato molto dei figli, e ha continuato a farlo anche dopo la separazione, senza grandi mutamenti per le loro abitudini perché, i tutti questi casi, i genitori avevano scelto questa modalità e sono andati a vivere in abitazioni non distanti, con i figli che hanno potuto trascorrere uguale tempo con l’uno e con l’atro. Ma sono casi rarissimi, perché oltre al buon senso e alla buona volontà dei genitori sono necessarie anche condizioni di fattibilità pratica (vicinanza delle abitazioni, disponibilità di tempo, compatibilità degli impegni lavorativi dei genitori, ecc.). E quando un regime del genere viene imposto dall’esterno, difficilmente può funzionare. Comunque anche in questi anni di affido condiviso sono pochi i padri che dicono “ok, io sono pronto a gestire e a occuparmi dei nostri figli per la metà o per una buona parte del tempo”, come il regime di “affido condiviso” richiederebbe, anche in termini di gestione dei compiti materiali.
Gli avvocati vengono a volte accusati di voler mantenere il tasso di conflittualità elevato.
Ritengo che la conflittualità di regola non sia alimentata dagli addetti ai lavori e tanto meno dagli avvocati, ma piuttosto che sia favorita da un sistema di norme che non individua criteri, limiti e parametri di chiara comprensione e applicazione. Se ci fossero regole scritte più precise con parametri di riferimento espressi con chiarezza, non solo le decisioni dei magistrati sarebbero più uniformi, ma gli stessi contendenti capirebbero come indirizzare i loro comportamenti e arriverebbero preparati a una soluzione concordata che normalmente è quella che i professionisti prospettano come ipotesi preferenziale. Anche per gli avvocati, in presenza di norme più precise e dettagliate, il lavoro sarebbe molto più facile, e per noi sarebbe un vantaggio. Adesso c’è una discrezionalità assoluta: spesso di fronte a casi simili vengono prese decisioni assai diverse, a seconda dell’orientamento del singolo tribunale o talvolta anche del singolo magistrato. E spesso l’avvocato non è in grado di prospettare al cliente l’orientamento prevalente, né tanto meno fare previsioni sia sui tempi di permanenza con i figli sia sull’ammontare del contributo al loro mantenimento.
Ma quanto costano, a livello di spese legali e di avvocati, una separazione o un divorzio?
Il costo è ovviamente variabile perché dipende dall’attività svolta dal professionista nel corso del procedimento. Ci sono dei parametri determinati, dalle tariffe professionali che individuano diversi scaglioni a seconda del valore della pratica. Ogni scaglione prevede un minimo, non è più obbligatorio, e un massimo – tutt’ora in vigore – per ogni singola attività svolta: l’avvocato individua il suo compenso in relazione all’impegno professionale e alla complessità della pratica. Certo, saltati i minimi si è scatenata una concorrenza al ribasso che va a detrimento della qualità.
E quanto può durare una causa di separazione?
Per una separazione consensuale possono bastare anche sei mesi. Per una giudiziale possono trascorrere diversi anni, perché può protrarsi anche in Appello e in Cassazione. Nella separazione giudiziale c’è una fase presidenziale, sommaria, ove, all’esito dell’udienza in cui i coniugi compaiono davanti al presidente, vengono adottati i provvedimenti temporanei e urgenti riguardanti l’affidamento della prole, il contributo economico ai figli e al coniuge e l’assegnazione della casa familiare. Provvedimenti che normalmente restano in vigore fino alla sentenza definitiva, salva la possibilità di modifiche a opera del giudice istruttore in caso di circostanze sopravvenute. La durata del giudizio è determinata in gran partner dalla complessità dell’istruttoria, e dunque dalla necessità di ascoltare testimoni, di svolgere una consulenza tecnica d’ufficio, e dal tempo che intercorre tra una udienza e l’altra.
Ritiene che intorno a questa materia sia sorto un business, anche a seguito dell’introduzione dell’istituto della mediazione nelle cause civili?
Quanto alla mediazione, in materia di famiglia, non solo non è obbligatoria, come per la maggior parte delle cause civili, ma, ove volontariamente intrapresa, riguarda essenzialmente i rapporti interpersonali tra i coniugi, ed è autonoma dal giudizio: non ha diretta ripercussione nel processo, può svolgersi parallelamente e continuare anche dopo la conclusione del medesimo. E comunque questa materia è sempre stata curata da tecnici del settore sia nell’ambito delle strutture pubbliche Asl, sia dai professionisti privati (neuropsichiatri, psicologi, psicoterapeuti), e l’aspetto senz’altro più rilevante è il lavoro meritorio di supporto da loro svolto in questa delicata materia piuttosto che quello del business. Nel settore della famiglia, infatti, non abbiamo assistito al fiorire improvviso di enti o associazioni non sempre qualificati, come sta avvenendo invece nell’ambito della conciliazione civile.