La lotta operaia all’epoca di CentoVetrine

La lotta operaia all’epoca di CentoVetrine

Lo svincolo autostradale di San Giorgio è stato il polmone del dopo Olivetti. In un reticolo di pochi chilometri – stretti stretti tra rotonde e bianche costruzioni – si è concentrata un’alternativa a quel lutto insostenibile segnato dalla scomparsa della “cara azienda”, una via di fuga nel materiale e nell’immaginario. Da un lato, Pininfarina, il suo ramo produttivo chiuso lo scorso ottobre; dall’altro – lungo le evocative via Federico Fellini e via Anna Magnani – Telecittà Studios, la Hollywood piemontese, a San Giusto Canavese.

A fondarla fu nel 1996 Leandro Burgay, ex assicuratore biellese – fiuto imprenditoriale e passione per le telenovelas sudamericane – riconvertitosi a metà degli anni Ottanta al business televisivo su suggerimento dell’amico Carlo Bernasconi, manager Fininvest morto prematuramente nel 2001, a cui è intitolato uno dei dieci teatri di posa (tre anni dopo la sua scomparsa fu tirato in ballo nel processo Mills dalle dichiarazioni – poi ritrattate – dell’avvocato inglese, che disse che fu Bernasconi a consegnargli i presunti 600 mila dollari per conto dell’ex premier).

Dal 2000, il vero motore produttivo degli Studios è Centovetrine, soap italiana con all’attivo 2.500 puntate e invidiabili picchi di share (36% in epoca predigitale e, attualmente, una media di 3 milioni e mezzo di spettatori al giorno, alle 14,10), che qui – in tre teatri – si è insediata insieme al cast tecnico e artistico. Prodotta da Mediavivere, joint venture tra Rti (società posseduta al 100% da Mediaset) e Endemol (controllata per circa un terzo dalla stessa Mediaset), è stata considerata troppo costosa dall’azienda committente e temporaneamente sospesa, senza preavviso, il 23 dicembre. E per il Canavese si è prefigurato un nuovo salto nel buio. Due giorni prima, era stato comunicato il non rinnovo dei contratti per oltre 150 lavoratori tra elettricisti, costumisti, montatori, scenografi e tecnici. Causando di riflesso la perdita di un centinaio di posti del primo indotto, artigiani, ristoratori, sarti. Senza contare i danni a un secondo livello di indotto che raddoppiava le cifre, a cui si sommavano le reali incertezze per i 25 attori principali della serie. E si aggiungevano decine di interpreti secondari e ben 5 mila attori per un giorno (le comparse) all’anno.

Il paradosso della vicenda è che Centovetrine va e andava bene, con buoni risultati: «Meglio di Beautiful, che costa di più e va peggio, ma nessuno la mette in discussione» ribadivano, a fine anno, i 150 fuori dall’hotel quattro stelle Santa Fé e dal ristorante La dolce vita. «Una doccia gelata – diceva Lello Roppolo, capo elettricista e 36 anni di vita sul set tra cinema e tv – nel mondo dello spettacolo ci si abitua a essere precari, soprattutto tecnici e artigiani. Dopo undici anni di fatiche, speravamo di conoscere con un briciolo di preavviso le decisioni dell’azienda. Nessuno si arricchisce lavorando dietro le quinte. Che farà, chi ha un mutuo e figli a carico?».

Tutti, amareggiati, col fiato sospeso in attesa di ulteriori decisioni della famiglia Berlusconi, specificatamente Piersilvio, vicepresidente di Mediaset, che, dopo settimane di silenzio (e lettere dei lavoratori cadute nel vuoto), si è espresso venerdì – non senza suspense – per un proseguimento, almeno per un anno, della serie, in cambio di un taglio dei costi di produzione. Notizia, anche questa, arrivata senza preavviso con uno dei colpi di teatro cari alla dinastia del Biscione: alcuni lavoratori l’hanno scoperta guardando la tv mentre veniva annunciata in diretta da Rita Dalla Chiesa, grande fan della soap di San Giusto. Pietro Genuardi, uno degli attori storici, presente nello studio di Forum, si è mostrato spiazzato, ma ovviamente contento. «In controtendenza – ha comunicato Mediaset – con la crisi economica e con l’evidente difficoltà del mercato dei media», l’azienda «ha deciso di affrontare lo sforzo necessario per continuare a sostenere un prodotto di qualità che il pubblico dimostra ogni giorno di gradire». Ha aggiunto: «Si sono avvicinate le condizioni minime necessarie per assicurare la continuità a una fabbrica creativa cruciale per un intero distretto industriale italiano». Quindi, salvi i posti, quando ormai a Cologno Monzese la parola d’ordine sembrava «tagli a ogni costo». D’altronde, crisi e lodo Mondadori con i 560 milioni di euro versati alla Cir di Carlo De Benedetti (non così amato da queste parti, dopo la débâcle in sella all’Olivetti) hanno portato il colosso televisivo a stringere la cinghia. Centovetrine sopravvive, ma non è chiaro quando ripartirà realmente la produzione e nemmeno per quanti mesi dell’anno verranno impiegate le maestranze.

«I giorni prima di Natale, – racconta Francesco Stella, vice produttore creativo per Mediavivere – quando i lavoratori hanno saputo che non sarebbero stati rinnovati i contratti sono stati per me quelli professionalmente più difficili. A loro, va tuttora la mia solidarietà per ciò che hanno vissuto. La notizia del riavvio mi rende felice perché ridà speranza a centinaia di persone, che hanno lavorato con passione per anni». Oggi, domenica 22 gennaio, Centovetrine esordisce in prima serata (Canale 5, ore 21,30). Doveva essere la prova del nove. Continuare e raggiungere la doppia cifra di share, o morire – come la collega Vivere (prodotta a San Giusto, chiusa nel 2008) o l’Agrodolce targata Minoli (realizzata dalla Rai in Sicilia e smantellata tra le polemiche) –- e lasciare a casa le maestranze? Così, non dovrebbe essere. Non ci sarà l’ansia del lunedì per vedere i dati d’ascolto. Ma i risultati saranno indicativi per le prospettive della serie, per capire se il prime-time non rimarrà solo l’approdo di una domenica d’inverno. «Centovetrine costa 60-65 mila euro a puntata per 23 minuti di durata in day-time, il 50% in meno di una prima serata. Lo sforzo pubblicitario con cui Mediaset sta promuovendo il puntatone di domenica dimostra l’interesse per il prodotto», spiega Stella.

Giovedì 12 gennaio è stato il giorno dell’ultima busta paga. Gli Studios quasi deserti e inaccessibili per chi arrivava dall’esterno («Non ci sembra opportuno», dicevano al telefono). Fuori alcuni lavoratori a fare capannello, a incrociare le dita e, ancora, a scuotere la teste per quel 21 dicembre, il giorno in cui gli undici anni (con taciti rinnovi di sei mesi in sei mesi) sembravano sprofondare in un burrone. I tweet degli attori avevano fatto il giro del web: Genuardi, Ivan Bettini nella serie, con dei semplici “On” e “Off” comunicava l’agonia della serie. «Questa è una grande famiglia allargata. In tanti si sono trasferiti qui a San Giusto, anch’io l’ho fatto» racconta Lello Roppolo. Giovani professionisti si sono formati a San Giusto – una grande scuola – come Fabio Macaluso, suo elettricista che gli sta accanto: «Prima a Vivere poi a Centovetrine». Professionisti che, dal primo giorno, non hanno mai abbandonato gli Studios, come Antonio Danieli direttore della fotografia nelle riprese esterne, che si è visto sfrondare del 30% due anni fa. All’interno dei teatri, alla post-produzione, preparano il cosiddetto puntatone, sette puntate inedite rimontate per la prima serata, con uno stile diverso. Meno “ti amo” e “ti amo, ancora” sostituiti da un racconto più agile. «Si limano le classiche ripetizioni del linguaggio della soap e si fornisce più ritmo», sottolinea Stella.

Negli anni, a San Giusto, l’immaginario si è stretto al materiale. Qui, nell’Hollywood padana, tra la nebbia e la Serra di Ivrea, le storie si sono prolungate oltre il set, confondendosi in una paese di nemmeno 4 mila anime che rifocillava e assisteva la serie. E che vacilla ogni volta che sente la parola tagli. Lo spettacolo è di casa. Come per magia, il piccolo lago di Candia può essere trasformato nel Sudamerica. «Bastano le luci». Difficile, però, anche col maggior sforzo di fantasia, immaginarlo come il Titicaca. E nel dopo Olivetti, pure “le luci” si sono fatte opache. Tanti sono i giovani passati dagli Studios. Stefania Cataldi assistente al montaggio dal 2005 al luglio scorso, ora vive a Londra, prima della batosta: «Sapere con un minimo di anticipo le scelte della dirigenza era un gesto di obbligata umanità e correttezza professionale, anche alla luce di un contratto di lavoro con scarsissime garanzie (niente preavviso di chiusura, tfr incluso nello stipendio). Forse non fa scalpore perché non stiamo parlando di cinema o perché la precarietà nel mondo dello spettacolo non fa notizia, ma i valori e i diritti sono gli stessi». Una tutela che nella serialità manca e viene reclamata pure da Sara Migliorini, assistente scenografa, che solo pochi giorni fa si augurava di proseguire dieci anni intensi.

Ora, a meno di un inaspettato colpo di scena della famiglia Berlusconi, la serie ripartirà. In onda, andranno le puntate già pronte (duecento, quasi un anno di vantaggio) e, tra qualche mese, riprenderà la produzione e il lavoro per le 150 maestranze (i posti sono confermati, ma ritorneranno anche i lavoratori che hanno fatto vertenza?). Per un altro anno, San Giusto sarà ancora la Hollywood del Piemonte. Dopo la fine dell’Olivetti e senza più calcolatori, nel Canavese risulta, però, difficile programmare il futuro.
 

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