Trasparenza e Merito. L'università che vogliamoNell’informazione italiana “contano solo cinque voci”, sembra oggi, ma è il 1978

Nell’informazione italiana “contano solo cinque voci”, sembra oggi, ma è il 1978

«La stampa italiana costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza. Il tema fu già posto da Einaudi alla Costituente, ma né allora né dopo si è riusciti a risolvere questo enorme problema di libertà e dei diritti umani. Non so come giocherà la nuova legge sulla stampa; ma è certo che la gestione giornalistica è talmente costosa da essere proibitiva (…) Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale».

Diciamo subito che la frase si colloca alla fine degli anni Settanta. Sfido chiunque, a parte qualche illustre storico ferratissimo sull’argomento, a indovinare quando e chi ha scritto queste parole. Proviamo a fare un gioco di ipotesi, insieme al lettore.

Non può essere stato un grande scrittore o un artista dell’epoca. Almeno per due ragioni: analizzandola filologicamente, si nota che la frase si addentra nel tecnico, non è ad effetto, non è altamente poetica, evocativa, accattivante e neppure un po’ populista. Inoltre, morto Pasolini (morto non a caso, ma probabilmente proprio per i suoi modi di esprimersi controcorrente, spesso imbarazzanti), nessun altro, a conti fatti, ha posto la questione della libertà di stampa in Italia in termini così netti, almeno a quei tempi. Altro discorso è poi quando è arrivato il conflitto di interessi di Berlusconi, e tutti gli intellettuali si sono svegliati dal torpore ed hanno cominciato, un giorno sì e l’altro pure, a porre il problema, facendone anzi un cavallo di battaglia buono per aizzare le folle e vendere qualche copia in più dei loro libri o pamphlet. No, non di un grande intellettuale si tratta.

Non può essere stato nemmeno un gettonato opinionista o un grande giornalista della carta stampata, perché sarebbe stato come sputare nel piatto dove mangia. Il coraggio e le belle parole le profondono e le dispensano, ampiamente, su altri temi (cavalcando l’onda dell’emozione e del sensazionalismo, dal caso Tortora a Vanna Marchi, da Moggi al capitan Schettino).

Non può essere stato, infine, una personalità politica di primo piano nel culmine delle sue funzioni di potere, né con incarichi al governo, per ovvie ragioni di relazioni e scambi di favore con le stesse grandi testate, né all’opposizione, tenuto conto che, dalla fine degli anni sessanta in poi, il più grande partito di opposizione, cioè a dire il Pci, ha cercato in tutte le maniere di superare quell’isolamento (la cosiddetta conventio ad excludendum non era valida solo per l’approdo al governo, ma anche per lo spazio su tv e giornali a grande tiratura) a cui era stato costretto dalla Dc (ma anche poi dal Psi) durante la lunga fase della guerra fredda.

No, nulla di tutto questo. Queste durissime parole, che possiamo riproporre valide e intatte oggi senza modificare una virgola, sono state scritte da un uomo che si trovava stipato in un cubicolo lungo tre metri e largo meno di uno, grande quanto una comune porta di appartamento, stipiti compresi, in cui c’erano solo una branda, un water, qualche foglio di carta e una penna.

Quell’uomo, tenuto prigioniero dalle Br per ben 55 giorni, è colui che più di tutti, più di chiunque altro, più di qualsiasi paladino delle libertà nostrane tanto in voga oggi, ha il diritto ed ha l’autorità morale e intellettuale per darci lezioni, allora come oggi, sulla libertà di opinione e di informazione in Italia. Un uomo costretto, in quei lunghi e drammatici giorni, a scrivere per non morire e, soprattutto, a scrivere per riuscire a sopravvivere idealmente, così come poi è stato, alla propria stessa morte materiale.

Per chi non ci credesse, è bene segnalare lo scritto in cui queste parole si trovano: Memoriale, XVI tema – Sulla indipendenza della stampa italiana, in Comm. stragi, II 154-155. Si tratta di quel noto memoriale, ritrovato in più parti e in tempi diversi (1978, 1990), proprio perché in molti, e a vari livelli di potere (politico, economico, editoriale) temettero di renderlo pubblico, appunto, per via dei temi affrontati dal prigioniero.

Qui basta ricordarne qualcuno: l’organizzazione della Gladio, i contatti tra le Br e i servizi segreti occidentali, alcuni retroscena della strategia della tensione, le connivenze tra politica, economia, criminalità per far affari sulle spalle dei contribuenti. Insomma ce n’era per far tremare i polsi a chiunque. Ma il passaggio che sottopongo all’attenzione dei lettori, quello relativo alla mancanza di libertà di informazione in Italia, è un aspetto che ha influenzato, forse più di ogni altro, l’evoluzione democratica e civile del nostro paese.

Scrivo questo non in modo estemporaneo, per un tipico vezzo intellettuale (da cui è bene sempre rifuggire), né per dar sfoggio di particolari reminiscenze sulla più recente storia d’Italia, ma perché sollecitato di recente dalle notizie provenienti dal rapporto di Reporters sans frontières, un’organizzazione internazionale, nata in Francia (la patria dell’illuminismo e della rivoluzione – è bene ricordarlo di questi tempi), a difesa della libertà di stampa nel mondo. L’Italia, nel quadro comparato con gli altri paesi, si trova addirittura al sessantunesimo posto (per dare un’idea, prime sono Norvegia e Finlandia, la Grecia è al settantesimo, negli ultimi posti Iran, Siria, Eritrea e Corea del Nord).

La situazione del nostro paese, nonostante ciò che continuano a ripetere opinionisti e politici invitati nei talk show televisivi (o a scrivere dalle prime pagine dei quotidiani nazionali), non è molto diversa – e questo rapporto lo argomenta con chiarezza – da quella di paesi come, ad esempio, quelli balcanici, che vivono enormi deficit democratici oltre che economici.

In particolare, nel rapporto si segnala, anche in Italia, l’utilizzo dei media e dei giornali nazionali a grande tiratura, ma anche dei siti più visitati e quindi più remunerativi dal punto di vista commerciale e pubblicitario, per tutelare interessi privati. SI sottolinea la concorrenza sleale su un mercato assai ristretto, e si pone l’accento sulla presenza di giornalisti sottopagati e spesso obbligati all’autocensura.

Non è un caso, dunque, che in Italia molti giornalisti siano ancora costretti a vivere in regime di protezione, e che tanti altri, quelli che vogliono scrivere e riportare la realtà cruda delle cose, senza intermediazioni, compromessi, favoritismi, scambi, vengano isolati e non possano svolgere dignitosamente il proprio lavoro.

Un paese in cui l’informazione indipendente non esiste o è assolutamente minoritaria, usufruisce di pochissimi mezzi, è sempre a rischio di essere strozzata e ridotta al silenzio, nell’indifferenza dei partiti di governo e di opposizione, impegnati a crescere le proprie quote di influenza proprio sui media e sulla stampa nazionale.

I tentativi di introdurre leggi bavaglio, di censurare i contenuti della rete da parte del governo precedente, le polemiche furibonde di molte personalità dell’opposizione nei confronti dei giornalisti e della stampa, sono tutti segnali chiari di una forma mentis della politica italiana che, purtroppo, risale a epoche assai remote. Un paese già declassato nel 2009 a “partially free” dall’organizzazione americana sulla libertà nel mondo Freedom House.

A questo punto girerei al lettore una domanda: ma è davvero stata solo colpa di Berlusconi e del mai risolto conflitto d’interessi se la libertà di informazione in Italia è giunta ai pericolosi livelli tuttora negati dalla maggioranza degli osservatori italiani? Se ci rifacciamo al drammatico appello di Moro in carcere, che mi sembra un elemento storico molto significativo, credibile, e soprattutto non viziato da possibili forzature interpretative di parte, verrebbe proprio da rispondere di no. 

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