Per Goldman Sachs è finita l’età dell’oro

Per Goldman Sachs è finita l’età dell’oro

Per Goldman Sachs il 2011 sarà ricordato come l’anno del cambiamento. Non solo ha dovuto registrare continue perdite derivanti dall’investment banking, il suo core business tradizionale, ma ha anche vissuto una vera e propria fuga di cervelli. La banca statunitense, come riporta la Securities and exchange commission (Sec), l’authority di vigilanza finanziaria statunitense, ha perso oltre 40 executive nel corso del 2011. I partner presenti a inizio anno erano 483, ma la Sec ha evidenziato che al 31 dicembre scorso questi sono diminuiti fino a 442. Due pezzi da novanta di Goldman Sachs, David Heller e Edward Eisler, entrambi numeri uno della divisione Securities trading, hanno deciso di uscire dalle scene, pur restando nell’orbita della banca tramite un contratto di consulenza. In dicembre se n’era andato anche Edward Forst, condirettore della divisione Investment Management del gruppo, lasciando la GS Tower in Lower Manhattan. E per il 2012 si attendono nuovi addii, dato che nel luglio scorso il gruppo ha annunciato tagli al personale per circa 1.000 unità. L’età dell’oro degli uomini d’oro di Wall Street è forse finita?

Lloyd Blankfein, amministratore delegato di Goldman Sachs, aveva lasciato intendere che il vento è cambiato. Due mesi fa, come spiegano diverse fonti bancarie, Blankfein inviò una mail ai suoi collaboratori più vicini, al suo “Inner circle”. C’era spiegato che non sarebbe stata tenuta la consueta festa di Natale nella sede di New York. Non per tutti, almeno: in questo modo, c’era lo spazio operativo per festeggiamenti più intimi, più sobri. Come nel 2009, anche l’anno scorso l’austerity ha colpito la regina di Wall Street. Del resto, in luglio la società aveva annunciato il nuovo piano di ristrutturazione aziendale, subito dopo la presentazione della trimestrale, peggiore rispetto alle attese. David Viniar, direttore finanziario di Goldman Sachs, spiegò che la banca doveva tagliare circa 1.000 unità lavorative. Una cifra utile a risparmiare 1,2 miliardi di dollari. E questo fenomeno, nuovo per la banca simbolo di Wall Street, sia in positivo sia in negativo, sta andando avanti.

A inizio 2011 la banca ha deciso di chiudere la divisione Global Macro proprietary trading, un fatto che ha lasciato sgomenti molti esperti del settore. Composto da 8 persone, questo segmento di Goldman Sachs era una delle parti fondamentali del gruppo. «È uno dei nostri fiori all’occhiello, il suo compito è quello di essere un faro nel mondo della finanza», disse Viniar nel 2007. Ora la luce si è spenta. Analoga la storia del Global Alpha Fund, altro punto focale delle attività di Goldman Sachs. L’annuncio della chiusura del fondo, circa 1,6 miliardi di dollari di asset, è stata data lo scorso 16 settembre. In molti, come la rivale J.P. Morgan, hanno visto in questa scelta una presa di coscienza di un nuovo corso della finanza. Molto probabilmente è così.

I motivi di questo appannamento sono molteplici. Uno dei più evidenti è il giro di vite compiuto dall’amministrazione Obama a seguito del crac di Lehman Brothers, avvenuto il 15 settembre 2008. Con la riforma dettata dal Dodd-Frank Act, che di fatto limita le possibilità alle banche d’investimento di effettuare il proprietary trading, ovvero la negoziazione per conto proprio, molte società si sono ritrovate a doversi reinventare. Non ha giovato nemmeno il fallimento di MF Global, uno dei maggiori broker sui derivati finanziari, collassato nello scorso autunno dopo aver spinto troppo l’acceleratore sul debito sovrano europeo, poi avvitatosi.

L’altra ragione è da ricercare nel processo di deleveraging, ovvero riduzione degli asset. Da quando è fallita Lehman Brothers il sistema bancario americano ha dovuto fare i conti con i problemi da lui stesso creati. Le banche Too big to fail, troppo grandi per fallire, sono ancora oggi la consuetudine. La rilevanza sistemica di questi istituti bancari che non solo comprendono attività bancarie, ma anche assicurative e creditizie, è diventata uno dei temi più caldi nel mondo accademico (e non) mondiale. Gli stessi banchieri si sono resi conto, seppur in ritardo, di aver creato dei giganti dai piedi d’argilla, troppo deboli in caso di shock multipli, come ha evidenziato il caso di Lehman Brothers. Ecco quindi che è, seppur in modo graduale, si sta portando avanti un programma di riassestamento degli equilibri. Istituti di credito con un leverage, cioè il rapporto fra capitale di base e capitale investito, di 1 a 35 come era per la banca di Dick Fuld stanno riducendo questi valori. Sia in America sia in Europa l’età dell’Arcadia della finanza sta necessariamente subendo un freno rispetto al recente passato.

Il 2012 sarà all’insegna di questa tendenza, quella del deleveraging. Secondo un altro colosso del sistema bancario statunitense, Morgan Stanley, questo processo costerà fra i 1.500 e i 2.500 miliardi di euro, solo per le banche europee. Fra diminuzione degli attivi e delle esposizioni, l’universo bancario sarà costretto a una correzione di marcia rispetto al periodo d’oro vissuto fino al 2006, quando scoppiò la bolla del mercato immobiliare americano, imbottito di mutui subprime. Foraggiata dal credito facile, Wall Street è cresciuta a dismisura, prendendosi rischi che ora non possono più essere presi. Oggi, dopo 5 anni di violenta crisi finanziaria, non ci sono più margini per queste tendenze. E le mosse di Goldman Sachs testimoniano quanto sia vero che qualcosa è cambiato.  

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