Schettino e gli altri: in Italia è più difficile dire al capo che sta sbagliando

Schettino e gli altri: in Italia è più difficile dire al capo che sta sbagliando

La gran parte degli incidenti aerei accadono quando alla cloche c’è il comandante. Anche se a prima vista non avrebbe senso, visto che al comando c’è la persona con maggior esperienza. A ricordare questo dato è Malcolm Gladwell, giornalista del New Yorker, che in un capitolo del suo saggio “Outliers” ha analizzato il fattore umano negli incidenti aerei. Uno degli aspetti più interessanti della sua analisi riguarda quanto, in una data cultura, sia complicato per un sottoposto dire al capo che sta sbagliando e quanto, proprio questa possibilità, quella di poter criticare chi sta sopra di noi, sia importante per evitare incidenti. 

Ieri abbiamo ascoltato l’agghiacciante registrazione della Capitaneria che intima al comandante Francesco Schettino di tornare sulla nave, ma non sappiamo ancora esattamente cosa gli sia successo, il perché di un tale comportamento. Né è chiaro chi e perché lo abbia nominato in un posto di potere a cui, con ogni probabilità, non era adatto. La dinamica delle responsabilità, si spera, verrà chiarita dai magistrati e allora capiremo se la colpa sia davvero solo sua. Ma intanto colpiscono soprattutto le difficoltà che, da quanto emerso finora, sembrano avere avuto i suoi secondi a dirgli che stava sbagliando. Una difficoltà, come vedremo, che è misurata da un indice creato negli anni ’60 da uno psicologo olandese. Prima di arrivare lì, vale però la pena rileggere alcune righe del reportage di Carlo Bonini e Marco Mensurati su Repubblica:  

In plancia qualcuno nicchia, forse perché questo non è un “inchino” come gli altri. Troppo appoggiato alla terra. Schettino è di diverso parere. “C’è acqua, c’è acqua”, rassicura in plancia.

Nessuno mormora, il mal di pancia ci mette parecchio tempo a diventare un’azione. Per i sottoposti dire al capo che sta facendo un errore è sempre difficile. E forse sulla Concordia era ancora più difficile («sulla nave deve regnare una disciplina quasi militare» disse Schettino ad un giornale ceco nel dicembre 2010). Ma ci sono delle situazioni in cui da questa possibilità, già di per sé importante, finisce col dipendere la vita di molte persone. E ci sono delle culture in cui parlare con un superiore in maniera schietta è più facile che in altre. 

Ecco allora l’indice di cui parlavamo poco fa. L’ha costruito lo psicologo olandese Geert Hofstede quando lavorava all’Ibm. L’azienda Usa voleva capire le mentalità dei diversi mercati in cui si trovava ad operare. Di indici Hofstede ne ha costruiti diversi e tutt’ora sono fra i più usati negli studi cross-culturali. Fra il 1967 e il 1973 lo psicologo olandese analizza infatti i dati di oltre 70 paesi e ne ricava diversi elementi. Quello che interessa a noi ora si chiama «Power distance index». Per misurarlo pone domande come: «Quanto di frequente nella tua esperienza ti è capitato il seguente problema: dipendenti spaventati dall’idea di esprimere un dissenso ai propri superiori»? Ma anche: «Nel suo Paese i superiori hanno dei privilegi»? E così via. 

Più l’indice è alto, più significa che in quel Paese il rapporto col capo è verticale, più i sottoposti sono quindi ridotti a vassalli il cui diritto di critica è limitato. Ebbene fra le principali nazioni è la Cina quella che svetta con un punteggio di 80 pari merito con Arabia Saudita ed Iraq. Peggio di Pechino fanno in pochi, fra cui la Malesia che è quella con il punteggio maggiore (104). Nell’ Europa occidentale la palma dell’assolustismo va alla Francia con 80 punti (un dato ben incarnato dal carattere monarchico della Republique). Il Portogallo ha 63, la Grecia 60 (poco sopra l’Iran), la Spagna 57 e poi arriva l’Italia con 50. Gli Stati Uniti, per intederci, hanno 40 mentre, forse non a caso, la Germania ha 35 come il Regno Unito. Fanno ancora meglio i paesi scandinavi con la Danimarca che ha un punteggio di 18 mentre le nazioni in cui, in base a questo indice, è più facile dire al capo che sta sbagliando sono Israele (13) e l’Austria (11). 

«Nei Paesi con un basso indice – scrisse Hofstede nel suo saggio “Culture’s consequences” – il potere è qualcosa di cui i suoi detentori quasi si vergognano e che cercano in qualche modo di nascondere. Una volta ho sentito un funzionario statale svedese (basso Pdi) dire che per esercitare il potere doveva nasconderlo. I leader possono aumentare il loro status informale rinunciando ai simboli formali. In Austria (basso Pdi) il primo ministro Bruno Kreisky era risaputo usasse il tram per andare al lavoro. Nel 1974 ho visto il premier olandese (basso Pdi) Joop den Uyl andare in vacanza in camper in Portogallo. Comportamenti simili da parte dei potenti sono molto improbabili in Paesi ad alto Pdi come Francia e Belgio».

Nel libro Gladwell racconta come questo fattore, il Pdi, sia stato studiato e usato per ridurre gli incidenti aerei. E di come ad esempio la Corea del Sud vent’anni fa abbia ridotto la loro frequenza sulla sua compagnia di bandiera adottando a bordo, anche come lingua per le comunicazioni interne, l’inglese dove si usa sempre lo «you» sia che si parli con un figlio che con il primo ministro. Perché in coreano, per rivolgersi ad un superiore, occorrono invece vari salamelecchi che rendono meno semplice e fluido il flusso delle informazioni. Figuriamoci quando queste comportano una critica, figuriamoci quando il tempo per decidere è poco e lo stress tanto. E il Pdi dei piloti d’aereo è un sottoindice nel quale la Corea del Sud risulta, guarda a caso, la seconda col punteggio più alto. 

Per carità, non si vuole qui ridurre la complessità di quanto avvenuto sulla nave Concordia a questo semplice indicatore. Anche se la cronaca politica lo rende attuale ogni giorno con i racconti di leader ormai bolliti a cui i sottoposti fanno molta, troppa, fatica a dire che stanno sbagliando. Anche se basta passare un pomeriggio a Roma per vedere sciami di auto blu sfrecciare con un gran can can di sirene, come fossero sempre di gran fretta, e come se quello che devono fare loro sia così dannatamente più importante di quello che devi fare tu. Ma la speranza è che la vicenda di Francesco Schettino possa essere letta come un monito da tutti quei potenti che prediligono gli yesman o il silenzio, da tutti quei capi che mortificano i loro subordinati con un’autorità che, senza autorevolezza, è vuota: chi di potere assoluto ferisce, di potere assoluto, spesso, perisce. 

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