LECCE – Pare che l’elettorato leccese non attendesse altro: dategli le primarie e vi solleverà il Tacco, definitivamente. In un’atmosfera surreale, questa domenica di febbraio – la prima di Quaresima, inaugurata da una vittoria della squadra giallorossa – si è consumato il rito che più democratico non si può. Rotta la pentolaccia, è cominciata la festa: il centrodestra cittadino, in ogni suo ordine e grado, ha letteralmente preso d’assalto il Grand Hotel Tiziano per scegliere il candidato sindaco della coalizione alle elezioni amministrative dell’imminente primavera. La notizia è tutta qui, condensata ed intricata, a destra le primarie piacciono un sacco. Ora i militanti scalpitano; dopo Frosinone e rarissimi altri tentativi, quello leccese in realtà è il vero esperimento riuscito del Popolo della Libertà: mentre altrove si vive ancora l’ansia da prestazione per i congressi comunali e provinciali e le diverse anime del partito si agitano in una lotta fratricida, nella capitale del barocco la convivenza è pacifica, sebbene competitiva. Dunque, gli scienziati politici del «laboratorio pugliese» si rivelano al solito i più arditi, disegnano e testano l’avanguardia prima di ogni altro collega del territorio nazionale. Ed ottengono un risultato di tutto rispetto: Paolo Perrone si afferma con 14.335 voti, staccando Pagliaro, fermo a 2.402, e Gigi Rizzo coi suoi 403 voti.
Sarebbero stati in tutto 17mila 418 i votanti, contro i 7mila 814 delle scorse consultazioni interne al centrosinistra: una prova muscolare che ha visto uomini e donne dell’assise comunale stretti attorno al primo cittadino uscente. Un messaggio in cifre, chiaro e tondo: «cominciamo a contarci da oggi (lo scarto nel dato dell’affluenza è di diecimila elettori), quando alle secondarie mancano ancora dei mesi». In serata, mentre imprudenti addetti stampa festeggiavano il dato esorbitante sulle bacheche facebook dei propri mentori, tra i salottini dell’hotel circolavano le prime voci di qualche scricchiolio. Il dato, così entusiasmante ma così poco limpido, aveva impensierito i condannati alla sconfitta. Dopo i casi delle tessere tarocche degli scorsi giorni, la sentenza emessa da taluni giureconsulti salentini era netta: troppi elettori pilotati, carovane di truppe cammellate hanno dopato l’esito finale. A far da sfondo le scene immancabili di centinaia di cingalesi e filippini in coda per scelta o necessità: assoldati nelle vie dello struscio domenicale con qualche lauta promessa, traghettati nelle vicinanze dei seggi a bordo dei pullman dell’azienda municipalizzata di mobilità e ripresi da obiettivi di ogni testata che si rispetti. I redattori delle testate locali le hanno ribattezzate “file indiane”, sono immagini eloquenti del caporalato del voto che qui non è una vera novità, tanto che anche le primarie del centrosinistra avevano subito tale infiltrazione “clandestina” che aveva forse falsato il peso elettorale di qualche concorrente rimasto indietro.
Le polemiche sono però rientrate in fretta, a mezzanotte si festeggiava la vittoria di Paolo Perrone, sindaco uscente. Capelluto – Berlusconi, già durante la scorsa campagna elettorale, gli strappò la promessa di un taglio più disciplinato, mai mantenuta – bocconiano di formazione ed algido quanto basta. Fin troppo accentratore, è questo ciò che gli rimproverano gli alleati. In poche giornate però il clima è mutato, stranezze meteorologiche (e non solo) di una terra stramba, in cui le distanze dalla normalità si misurano col titolo di un avvincente romanzo di Pierluigi Mele: Da qui tutto è lontano. È bastata la militarizzazione del consenso ad opera delle affermate gerarchie di amministratori locali azzurri a spostare l’ago della bilancia in favore dell’ammaccato Perrone. Solo poche settimane fa la decisone di celebrare le primarie, un’inedita circostanza che pareva aver lasciato indifferente la città mobilitata – giusto quattro settimane fa – per l’altra competizione decisiva: quella tutta interna al centrosinistra. Allora prevalse la candidata del Partito Democratico, oggi vicepresidente della Regione. Parentesi: da poco si è dimessa dal triplo incarico di consigliera provinciale, ma ha conservato la poltrona più ambita col benestare del governatore Vendola, agile nel glissare e superbo nell’assecondare: «Da candidata sindaco e vicegovernatrice, l’infaticabile Loredana Capone non potrà che tornare utile all’intera città di Lecce». Proprio grazie a questa sua doppia veste, chiaro: quando uno dice le sinergie.
Per ricompattare l’area di centrodestra, l’esercizio di partecipazione democratica è parso l’escamotage più semplice. Ha di fatto scardinato il Terzo Polo, sciolto nelle sue mille contraddizioni: mentre l’impavida Unione di Centro temporeggia pronta ad arruolarsi col centrosinistra, Futuro e Libertà strizza l’occhio al centrodestra. Ed IoSud? Qui in città la senatrice di Grande Sud, Adriana Poli Bortone, è ancora potente ed in grado di spostare gli equilibri tra coalizioni (in questo video il suo quasi endorsement per un Pagliaro galvanizzato). Un fulmineo comunicato notturno, infatti, invita “a riflettere sulla volontà di unità dell’elettorato” e consegna agli addetti ai lavori un penultimatum abbastanza intellegibile, le cui condizioni sono schiettamente politiche: assessorati in comune e provincia, per ricucire in fretta la frattura col gruppo dell’ex ministro Raffaele Fitto. Come in un concerto di René Aubry, il bello viene in fondo: basta aver un pizzico di pazienza e le note, di colpo, accelerano e finiscono per rapire il pubblico. A Lecce la politica sanguigna da sempre risuona ovunque, sulle “chianche” che lastricano le piazze a forma di bomboniera ma soprattutto nei sobborghi di periferia dove la crisi economica affama i nuclei familiari. Chi non crede all’analogia, recuperi dalla soffitta l’album “Plaisirs D’Amour”, inciso quasi quindici anni fa, con cui il musicista francese si innamora della penisola sudorientale e ne traspone musicalità e cadenze.
“Piacere, Paolo” è stato anche lo slogan di uno dei tre candidati. Questo nome vi dirà poco o nulla, ma per gli appassionati di decalcomanie elettorali si tratta di un personaggio da collezione. Un cavaliere del lavoro meridionale, tutto casa e bottega: negli ultimi anni ha tenuto a battesimo la svolta etnica, che passa attraverso la fondazione di un comitato promotore per il referendum costituzionale volto all’istituzione della Regione Salento ed il successivo naufragio della fregata regionalista. Procediamo con ordine: Paolo Pagliaro, cinquant’anni portati benissimo, è un leccese di successo. Comincia la carriera come speaker in una radio di nicchia, finisce per acquistarla e rilanciarla economicamente, oggi presiede il gruppo Mixer Media che edita l’emittente locale TeleRama, da sempre attenta al carattere identitario della propria mission, oltre ad una manciata di canali radiofonici nell’etere meridionale. È anche inventore di una tradizionale gara di solidarietà, “CuoreAmico”, che da tempo aiuta ragazzini disabili e le loro famiglie. Si potrebbe inoltre azzardare che i preliminari della svolta indipendentista debbano ricercarsi nella martellante campagna di comunicazione “Salento Doc” che, da anni, invita ad «acquistare prodotti di origine salentina, per garantire un futuro alle aziende, creare nuovi posti di lavoro e contribuire alla crescita economica e sociale di un intero territorio». «Premia la cultura di un acquisto consapevole»: recita lo spot che abbina le esortazioni localistiche ai grandi marchi di prodotti made in Salento.
Nessuno è in grado di spiegare perché un imprenditore di successo, degradato da guerriero a scudiero – come ha scritto Gianni Turrisi – abbia inteso lanciarsi nell’agone cittadino senza paracadute alcuno. Il valore elettorale del suo cartello di liste e movimenti si è rivelato abbastanza inconsistente, o comunque non all’altezza del battage pubblicitario. Però ha un merito grande: aver costretto il centrodestra a prendere le decisioni e, di conseguenza, a confrontarsi con concorrenti non avvezzi all’asservimento. Un altro merito, forse inconsapevole, è quello di aver trasformato Perrone nel “meno peggio” e di avergli tirato la volata. Il pentagramma del centrodestra leccese, insomma, fino a qualche mese fa era tutto da comporre: ne sarebbe venuta fuori una melodia stonata, in grado di mandare in bestia il maestro Aubry. Le vicende recenti hanno però permesso a Perrone, sindaco uscente con ancora intatto addosso il marchio dell’eterna giovinezza, di depurarsi dalle ombre del consenso risicato ed hanno fatto in modo che, per qualche tempo, le mille difficoltà di una città complessa e quasi ingestibile fossero confinate tra le brevi di cronaca, mentre le prime pagine se le spartivano i tre competitor (c’era anche un “giovanardiano” che correva in solitaria per denunciare le nefandezze e la scarsa collegialità dell’amministrazione Perrone). Si dunque è rivelata un venticello la ventata di novità portata da Pagliaro che, su facebook, commenta: «Il nostro risultato, per chi sa leggerlo, è stato straordinario. Grazie di cuore a tutti, siete meravigliosi. Vi abbraccio con affetto».
Non è del tutto vero che «i portaborse hanno sconfitto il tubo catodico, le clientele hanno escluso il voto d’opinione», come gigioneggiano i maliziosi. La competizione era una prova di forza e Perrone l’ha vinta, a Pagliaro va l’onore delle armi, ora si apre la fase della campagna elettorale vera ed il primo cittadino verrà probabilmente inchiodato alle sue responsabilità, cosa che in questa fase di primarie – dominate da un inatteso fair play – non è affatto avvenuta. In pochi hanno, per esempio, denunciato le indicibili regalie che pare si stiano consumando col piano di alienazioni degli immobili di proprietà del Comune. Per ora gli slogan dei 6×3 che hanno invaso i viali alberati si sono imposti con superba nonchalance. Ci sarà un punto di non ritorno, tuttavia: e pensarci oggi – giornata di festa sfarzosa per l’elettorato di centrodestra – è un esercizio scomodo ma necessario. Dopo i due riti di coinvolgimento dell’elettorato del capoluogo, sarà interessante valutare il dato dell’astensionismo alle consultazioni di maggio per capire quanto i leccesi si siano stufati di stare in fila. Si tratti di votare il candidato della porta accanto o di fare anticamera nell’ufficio dell’eletto: alla ricerca di uno strapuntino che rinsaldi il felice rapporto di (ca)stima, che in vernacolo vuol dire bestemmia.