Arcese licenzia in Italia, assume in Romania e prende soldi pubblici

Arcese licenzia in Italia, assume in Romania e prende soldi pubblici

L’allarme è partito pochi giorni fa dal responsabile del Sindacato di Base Multicategoriale di Trento, Fulvio Flammini: Arcese Trasporti Spa, con sede ad Arco (Trento) una delle più grandi società italiane di autotrasporto, guidata da Eleuterio Arcese, presidente di Anita (associazione di categoria aderente a Confindustria), «ha avviato lo scorso 30 gennaio le procedure di licenziamento collettivo per 190 autisti, 10 operai e 50 impiegati, praticamente un quarto dei dipendenti (in Italia sono circa 1.100, 4mila in tutto il mondo, nda)».

Consapevole che la crisi del settore è forte, Flammini ha tuttavia sottolineato almeno tre aspetti peculiari dell’iniziativa: «Ci sono voluti 20 giorni perché, indirettamente, venissimo a sapere che Arcese – seguendo la normativa che prevede che in caso di richiesta di mobilità l’azienda convochi solo le sigle firmatarie del contratto nazionale – aveva, per avviare la procedura, già incontrato due volte a Roma (8 e 17 febbraio) i responsabili di Cgil, Cisl e Uil. Che evidentemente non hanno ritenuto opportuno comunicare alla totalità dei dipendenti che un quarto di loro rischia il licenziamento». Un comportamento dei sindacati maggiori che Flammini riconduce ai dissidi fra le associazioni dei lavoratori in seno ad Arcese: «Sono mesi che, insieme agli altri sindacati di base (Slai Cobas e Confederazione Cobas) cerchiamo di eleggere le Rsu, subendo il boicottaggio della “triplice”, che, consapevole di essere minoritaria, continua a ostacolare la nomina».

Giuseppe La Pietra, responsabile provinciale di Fit Cisl (la sezione del sindacato dedicata ai trasporti) ha replicato a Flammini, sostenendo che «non è stato comunicato nulla per il semplice fatto che l’azienda non ha presentato un preciso piano di impresa: non avendo dati certi, non potevamo dare notizia di alcunché, anche perché la procedura di mobilità non è stata da noi accettata e non è partita. Nel secondo incontro, quindi, il tavolo è saltato e adesso aspettiamo una convocazione dal Ministero, dopo che la Provincia non ci ha invitato al vertice organizzato con l’azienda (il 21 febbraio, nda)».

Il rapporto fra la Provincia di Trento – nello specifico rappresentata dall’assessore all’Industria Alessandro Olivi – e Arcese è proprio il secondo aspetto peculiare evidenziato da Flammini, ricordando l’operazione di leaseback con cui l’ente nel 2009 comprò da Arcese per 18,6 milioni di euro un’area di 47mila mq per poi riaffittarla all’azienda. Come ricordato dalla Provincia stessa (pag.45), l’operazione mirava allo sviluppo del traffico su rotaia e vincolava l’azienda a mantenere 791 dipendenti nelle sue sedi in provincia di Trento. «Sorvolando sulle modalità con cui si è mascherato un contributo pubblico ad un’azienda del territorio in crisi, questa è la ragione» ha commentato Flammini «per cui chiediamo innanzitutto che la Provincia faccia pressione perché Arcese, prima della mobilità, faccia richiesta di misure più idonee a garantire la salvaguardia del lavoro, come ad esempio la cassa integrazione straordinaria (fra una settimana terminerà quella ordinaria per 168 dipendenti, nda), e secondariamente che pretenda da Arcese la restituzione dei 18,6 milioni, essendo venuta meno la clausola del mantenimento dell’occupazione. Se ciò non avverrà denunceremo il fatto alla procura competente e poi ci rivolgeremo anche all’Inps per le ‘strane’ casse integrazioni che in Arcese hanno preceduto i licenziamenti».

Eleuterio Arcese
Centro logistico di Arcese

Il riferimento alla procedura di cassa integrazione ordinaria in essere, avviata due anni fa, chiama in causa il terzo punto oscuro della vicenda. Sia Flammini che il collega Antonio Mura (in un’intervista al Trentino), infatti, hanno affermato che, a fronte dei tagli operati da Arcese da tre anni a questa parte nella forza lavoro italiana, soprattutto fra gli autisti, la società avrebbe cominciato a cercare e ad assumere personale comunitario, ma proveniente da paesi esteri (Slovacchia e Romania in particolare), immatricolando molti dei suoi mezzi in paesi in cui sono state aperte apposite filiali (l’ultima in Romania). Il che stonerebbe con i soldi che il contribuente (attraverso l’Inps) spende per pagare il personale di Arcese in cassa integrazione.

Difficile naturalmente trovare conferme ufficiali a tale pratica. Certo che a farsi un giro fra i forum dei camionisti rumeni e i siti di annunci di offerte di lavoro a Bucarest e dintorni parrebbe che presso Arcese Transport Srl (società di diritto rumeno con sede a Cluj) le assunzioni siano fioccate, anche in tempi recenti (si veda ad esempio qui, qui e qui).

L’azienda – che dovrebbe chiudere il terzo bilancio negativo di fila (-16,8 milioni di euro nel 2009 e -19,6 l’anno dopo) con un fatturato in calo (circa 250 milioni contro i 288 del 2010) – ha per ora mantenuto il riserbo: «Preferiamo non commentare. Stiamo cercando di uscire da questa situazione tutelando il più possibile i dipendenti e un gruppo che dà lavoro non a 250 persone, ma a 4mila» ha commentato Aurora Arcese. Nonostante un giorno e mezzo di approcci con il suo ufficio stampa l’assessore Olivi non ha invece trovato il tempo di rispondere alle nostre domande e di fornire un resoconto del meeting con l’azienda.

A proposito di politiche per l’intermodalità e dello switch dalla gomma alla rotaia, ècurioso (quanto forse intempestivo), infine, che proprio Anita abbia diffuso questo comunicato: «La Commissione Esteri del Senato ha votato un provvedimento che conferma la volontà dell’Italia di escludere le infrastrutture per il trasporto dall’accordo internazionale che tutela il sistema ambientale alpino. Siamo soddisfatti che il Senato abbia confermato la decisione assunta dalla Camera nel 2010, sostenuta dal precedente Governo e dalla Consulta generale per l’autotrasporto e la logistica. Si tratta di un risultato importante che auspichiamo venga approvato definitivamente in aula», ha dichiarato Eleuterio Arcese, presidente di Anita. «La ratifica del Protocollo trasporti comporterebbe la rinuncia del nostro Paese alla costruzione e al potenziamento delle infrastrutture stradali sulle Alpi, con inevitabili ripercussioni sul traffico stradale dell’arco alpino, già penalizzato da misure restrittive di transito. Una limitazione al traffico stradale di merci, in assenza di una valida alternativa ferroviaria, penalizzerebbe non solo l’autotrasporto ma l’intero sistema economico italiano».

Speriamo che prossimamente Arcese possa spiegare anche quale parte dei soldi necessari a costruire «una valida alternativa ferroviaria» sulle Alpi, da decenni mancanti, venga ogni anno spesa dallo Stato per tenere in piedi i bilanci delle aziende di autotrasporto. 

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