La domanda urgente delle ultime settimane è se Israele o gli Stati Uniti arriveranno ad attaccare l’Iran per impedire lo sviluppo di una bomba atomica. Per quanto possa apparire sorprendente, la notizia è una sola: l’attacco è già incominciato. Come altro possiamo inquadrare le esplosioni che, da Teheran a New Dehli, stanno facendo saltare per aria scienziati e diplomatici israeliani e iraniani?
L’esplosione di bombe nel “Greater Middle East” è una tragica ricorrenza ormai da anni, ma negli ultimi mesi la frequenza sembra essere aumentata. Nel novembre del 2011 uno scoppio ha devastato parte della base militare di Bid Ganeh, uccidendo – tra gli altri – un ricercatore missilistico. Secondo alcuni media israeliani, ci sarebbero responsabilità del Mossad nell’attacco.
Si è parlato di un coinvolgimento di Israele anche nell’attentato dello scorso 11 gennaio, quando a Teheran una bomba magnetica ha fatto saltare l’auto di Ahmadi Roshan, ricercatore in uno stabilimento per l’arricchimento dell’uranio. La tragica risposta iraniana è arrivata in febbraio, con due tentativi maldestri di colpire diplomatici israeliani. Un attacco a New Dehli ha ferito la moglie di un addetto all’ambasciata, mentre in a Tblisi, capitale della Georgia, una bomba è stata scoperta prima che potesse esplodere.
Si tratta, certamente, di un conflitto “a bassa intensità”, ma è pur sempre segnale del fatto che lo scontro è iniziato. In qualche misura, tale confronto ricorda molto i tempi della guerra fredda: non c’è un conflitto aperto a livello militare, ma si tratta solo di azioni sotterrane e mirate. È come se le due principali potenze del quadrante – Iran e Israele – si siano già organizzate per condurre uno scontro tra forze che già abbiano entrambe la bomba atomica. Israele ce l’ha dagli anni Sessanta, mentre l’Iran potrebbe arrivarci nei prossimi mesi.
Il tutto s’inquadra in un contesto più ampio che, da parte sua, è già da “Guerra Fredda” – chiaramente non a livello di ideologia, ma di interesse politico e come struttura strategica. L’impasse in Siria e l’incerto esito delle rivolte mediorientali, con il corollario della minaccia di Teheran di «chiudere lo Stretto di Hormuz» e bloccare il passaggio del petrolio dal Golfo Persico, indicano solo un fatto: il settore si sta riorganizzando, e lo sta facendo a causa dell’influenza delle grandi potenze.
Prendiamo il caso della Siria. La leadership del paese è retta da un complesso sistema mafioso-dittatoriale, quello degli Assad, che appartengono alla setta sciita degli alawiti. Agli occhi degli iraniani, paese sciita, il merito degli Assad è quello di riuscire a contenere le pretese della componente sunnita della Siria, chiaramente collegata alla sunnita Arabia Saudita. Ciò è un “merito” non da poco per l’Iran, che tramite la proxy (o interfaccia) siriana è in grado di rimanere in contatto geografico con hezbollah nel Libano meridionale, e perciò riuscire a condizionare la vita militare di Israele.
La posizione della Russia in tutto questo non è casuale. Ha sostenuto per decenni il programma nucleare iraniano, e continua a sponsorizzare gli Assad in Siria. Il ministro degli Esteri sovietico – pardon, russo – Sergey Lavrov sibillinamente ha suggerito di «lasciare che i siriani risolvano da soli i propri problemi». Mosca ha interessi precisi: sponsorizzando la “mezzaluna sciita” può conservare un ruolo in Medio Oriente – oltre a una base marina sul Mediterraneo, presso la città siriana di Tartus. Se Assad cade, i sunniti prendono il potere, e lo faranno con la sponsorizzazione dell’Arabia Saudita. Per questo i russi non avrebbero più nulla da dire nella regione, e per questo sostengono gli Assad, e per questo sono arrivati anche a fornire loro jet militari.
A questo punto, proseguendo il parallelo con la situazione della Guerra Fredda, possiamo notare come Israele sia simile a Berlino Ovest. Come dichiarò Stalin ai tempi, Berlino Ovest era per lui «le palle dell’Occidente». Ogni volta che voleva dar fastidio all’Occidente, gli “strizzava le palle” con qualche azione eclatante rivolta ai settori amministrati dalle potenze capitaliste. Così, la pressione su Israele è impiegata dall’Iran e dalla Russia per far pressione su Washington. Mosca sostiene Teheran, il cui braccio attraversa la componente sciita di Iraq e Siria, e arriva al Libano meridionale.
La crisi nucleare iraniana è strutturalmente simile alla crisi missilistica di Cuba. I nuovi vettori iraniani potrebbero far arrivare le testate tranquillamente fino al cuore dell’Europa, mentre Israele è già da anni a portata di tiro. Se è vero che la tecnologia iraniana è stata sviluppata con il supporto del Cremlino, ciò significa che i russi hanno responsabilità simili a quando tentarono di installare testate nucleari a Cuba nel 1962. Come ha dichiarato anni dopo il segretario per la Difesa di Kennedy, Robert McNamara, sembra peraltro che il Cremlino fosse riuscito a trasportare già qualche testata, prima che il tutto acquisisse rilevanza politica.
Per ora non è ancora pervenuto nulla su un possibile ruolo della Cina. Pechino è grande acquirente del petrolio iraniano, saudita e sudanese, ed è aggressivissima in Iraq. La crescita in potenza non è stata ancora accompagnata da una vera presa di responsabilità esterna – e forse non lo sarà mai, al di là delle illusioni. La presenza cinese rischia di avere un impatto squisitamente negativo, simile an “beggar-thy-neighbour” di britannica memoria. Sempre che Pechino non cambi idea, e non decida di passare dall’imperialismo economico, a quello militare.
Come uscire da tutto questo? Se la logica è quella della Guerra Fredda, l’esplosione di un conflitto su ampia scala è ipotesi totalmente da escludere. Gli attacchi con le bombe magnetiche sono il massimo livello d’intensità che possa essere raggiunto, a parte l’opzione di un raid aereo israeliano in Iran, i cui effetti pratici sono tutti da dimostrare. Come in tutti gli scontri per proxy, non ci sarà mai un “vincitore permanente”, per il semplice motivo che la potenza vincitrice non può occupare il territorio sconfitto.
Il maggior punto di incertezza per gli Stati Uniti riguarda il ruolo da rivestire in Siria. Nel corso della Guerra dello Yom Kippur, nel 1973, la decisione di Henry Kissinger di rifornire militarmente Israele scatenò l’escalation delle forniture militari sovietiche in Siria, con un conflitto che bruciò tonnellate mai viste di equipaggiamenti in poche ore, causando decine di migliaia di vittime. Adesso hanno incominciato i russi a intensificare le forniture ai siriani.
Come può reagire Washington? Il nuovo conflitto mediorientale sta cercando una nuova grammatica. Le scempiaggini di Bush (figlio) hanno convinto dell’inutilità di un intervento diretto, che peraltro sarebbe finanziariamente insostenibile. Tutti gli eventi del Medio Oriente lasciano intendere che le rivolte degli ultimi mesi siano l’espressione di un nuovo scontro continentale: i sunniti come forza filo-americana, e gli sciiti come forza filo-russa. Ciò non significa, ovviamente, che tutti i sunniti appoggino Washington, ma solo che Washington riesce ad avere maggior presa sui sistemi di potere all’interno dei paesi a guida sunnita, siano essi “presidentissimi” o dittature militari, come in Egitto. A parte la Siria, un altro fronte è in Bahrein, che ospita la Quinta Flotta americana. In questo piccolo paese, la guida reale sunnita è messa sotto pressione dalla protesta sciita (con gli sciiti che rappresentano la maggioranza della popolazione).
Non aspettiamoci che lo scontro si risolva in pochi mesi, o che si risolva mai: come nel corso della Guerra Fredda, le frizioni dureranno decenni. L’eccezione rappresentata dagli anni Novanta, tra l’Iraq del 1991 e le Torri Gemelle, è un “unicum” storico che non si ripeterà più per decenni. Bombe magnetiche e annunci di nuove armi ci accompagneranno per anni, così come per quasi mezzo secolo le cronache mondiali sono state scosse da notizie di colpi di stato, guerre di periferia e attentati.
Per citare Kissinger, «la logica della guerra è la potenza, e la potenza non ha limite inerente. La logica della pace è la proporzione, e la proporzione implica la limitazione. Il successo della guerra è la vittoria; il successo della pace è la stabilità. La condizione della vittoria è l’impegno, la condizione della stabilità è l’auto-contenimento». In presenza di forze post-imperialiste come gli Stati Uniti e la Russia, non si può parlare certo di desiderio di auto-contenimento. Alla luce dell’emersione cinese, le due vecchie potenze cercano di fortificare le proprie ridotte, perse tra le sabbie e le montagne mediorientali, in attesa dell’arrivo delle truppe di Pechino.