Ghemon, Ghemon Scienz, Gilmar, Kal. 15 barrato, Sangamaro, Ghemon & The love 4tet. Difficile imprigionare Gianluca Picariello in una sola delle sue dimensioni: il rapper, oggi alla soglia dei trent’anni, non ha mai smesso di cambiare nomi e luoghi. Da Avellino, dove cantava in dialetto irpino, si è trasferito a Roma, culla della sua nascita musicale. Ora vive a Milano, città in cui ha scritto il suo ultimo disco, Qualcosa è cambiato, pubblicato all’inizio del 2012.
Ghemon è il volto autoriale del rap italiano. Grazie a testi ricercati ed eleganti è riuscito a imporre al grande pubblico dell’hip hop uno stile da canzone d’autore. Come in Fantasmi pt. 2, il suo ultimo singolo, dove a citazioni da liceo classico – “io e le donne, legati come Andromeda e Perseo” – affianca assonanze ricercate – “cerco asilo nell’assillo, scrivo per ripartirlo, fino a che non vinco non potrò issare il vessillo” -. Il suo è uno stile in continua evoluzione. Tanto che tra poco potrebbe abbandonare i beats dell’hip hop per “sperimentare qualcosa di diverso”, come lui stesso ha annunciato ai suoi fan qualche mese fa attraverso la sua pagina Facebook.
Il presente di Ghemon si chiama Qualcosa è cambiato, una storia felice di produzione musicale “dal basso” che è riuscita a raggiungere risultati di vendita importanti. All’inizio, il disco non è stato distribuito nei negozi: così, le prime mille copie fisiche sono state vendute online e spedite via posta dagli uffici della Macro Beats Records, una piccola etichetta romana. In un certo senso è un’autoproduzione, visto che Ghemon collabora attivamente con l’etichetta fin dalla sua fondazione. «Con Macro Beats ci mettiamo in gioco assieme, dividendo costi di produzione e rischi di investimento», spiega. Una storia che si ripete da anni e che non smette di funzionare. Nella prima settimana Qualcosa è cambiato ha infatti raggiunto il podio della classifica di vendite su iTunes, posizionandosi al terzo posto, tra Adele e De Gregori. Uno schiaffo alle grandi distribuzioni, nell’era dei megastore.
«Fin dal mio primo disco, ho coltivato l’attitudine al do-it-yourself: produzione e distribuzione fatte in casa. Ai tempi portavo personalmente le copie all’ufficio postale, per spedirle a chi le acquistava. Arrivavo lì con scatoloni pieni di cd, talmente tanti che riuscivo sempre a ottenere un piccolo sconto dagli impiegati. Poi col tempo ho perfezionato la tecnica: ho imparato a spedire le raccomandate, a fare i pacchi, a usare il bilancino per pesarli, ho capito cos’è un contrassegno. Se decidessi di smettere con la musica, potrei tranquillamente lavorare alle poste».
Nella scena rap, spesso, la produzione do-it-yourself riguarda non solo il contenente – il supporto fisico del cd e la sua distribuzione – ma anche il contenuto, la musica stessa. Come mai?
Nel rap, e più in generale nell’hip hop, c’è sempre stata questa cultura dell’autoproduzione. Nell’ambiente si tende a fare un po’ tutto da soli: io scrivo il pezzo, un mio amico fa le basi, poi si impara insieme a registrare la canzone. E così, col tempo, si cresce. Conosco ragazzi che hanno iniziato per gioco e oggi sono diventati fonici bravissimi. È un po’ come avviene nel mondo del punk. Non so dirti il perché. Semplicemente, rispetto al pop o al rock, c’è un terreno più fertile. Si collabora e ci si sostiene a vicenda e la trovo una cosa bellissima.
È difficile emergere nella scena rap?
In confronto ad altri generi, meno. Basta un buon disco e il tuo piccolo stuolo di fan te lo crei. Il difficile è restare a galla: un istante sei il “rapper del momento”, un istante dopo è già arrivato qualcun altro più bravo di te. Nascono moltissimi artisti. Del resto, il rap è una musica a portata di tutti. Non serve capacità vocale, non devi conoscere le note o imparare le scale. Hai presente Sid Vicious e il basso? Ecco.
Ti sei sempre distinto dagli altri rapper per i tuoi testi, più introspettivi e riflessivi. Nelle tue canzoni non ci sono i topoi di una canzone rap: niente racconti di vita da strada, niente insulti, niente “io sono più fico di te”. Al posto dell’autoreferenzialità, metti le emozioni.
La grande pecca del rap, negli ultimi dieci anni, è stata proprio questa: ha parlato solo la sua lingua, si è rivolta solo alla sua gente, infischiandosene degli altri. Io la vedo in modo diverso. Per me, la musica deve avere un linguaggio più universale. Per quanto mi riguarda, ho sempre usato le canzoni come terapia, per aiutarmi. L’inchiostro è sempre uscito dalla mia penna con naturalezza. Semplicemente è questo il mio modo di esprimermi. A differenza di altri dò molto più spazio al lato emozionale della canzone, cosa che nel genere è abbastanza inusuale.
Qualcuno ti ha mai criticato per questo?
Sì, soprattutto all’inizio. Nell’ambiente, quando uno fa qualcosa di più introspettivo, la prima cosa che senti dire è: “È gay”. Anche per me è stato così. In giro ci sono molta ignoranza e molta omofobia, bisogna avere stomaco e palle per riuscire ad andare avanti per la propria strada. Non mi interessa chi non mi considera abbastanza rap. Se come stile e come contenuti sono più assimilabile a Dente o Le luci della Centrale Elettrica che agli altri artisti della scena, beh, mi sta bene così.
Che musica ascolti?
Odio chi a questa domanda risponde “di tutto”. Eppure, devo risponderti così: di tutto. Dal rap in tutte le sue forme, alle espressioni più varie della musica italiana. Ultimamente ho trovato bellissimo il disco solista di Roberto Dell’Era, il bassista degli Afterhours. Ascolto anche altri cantautori, come Joe Barbieri, che apprezzo molto. Guardo anche all’estero: la mia playlist spazia dai Radiohead ai Little Dragon. Non proseguo perché la lista potrebbe essere davvero lunga. Non voglio fare per forza il rapper illuminato o alternativo, eh. Semplicemente, amo la musica.
Suoni qualche strumento?
Sto imparando a suonare la chitarra. Sono un tipo curioso, mi piace provare cose nuove.
E a livello di testi, che cosa ti piacerebbe sperimentare?
Ci sono forme evolutive del cantato più asciutte rispetto a quelle del rap. Voglio cercare di usare meno parole. È una sfida evolutiva, un adattamento alla realtà. La realtà è fatta dai 140 caratteri di Twitter e io non posso più permettermi di usare dieci tweet per dire una cosa: devo riuscire ad usarne uno solo. Sto imparando a comunicare più con le note e le melodie e meno con le parole.
Pochi mesi fa hai annunciato che dopo il prossimo disco (440/scritto nelle stelle, che uscirà in primavera) lascerai la musica rap. In che direzione andrai in futuro?
In tutte quelle possibili. Sperimenterò. Ritengo che fra poco, io e il rap prenderemo due strade diverse. Il che non significa che mi metterò a cantare e basta o che sicuramente cambierò genere, come dissi ai tempi. Quella fu una dichiarazione imparziale e stupida. So per certo una cosa: adoro la scrittura in tutte le sue forme, scrivere è l’unica cosa che so fare. Potrei diventare autore di un programma radiofonico, firmare canzoni per altri artisti, oppure lavorare ad un libro, ancora non lo so. L’unica certezza che ho è che non riuscirò mai a bloccare la mia evoluzione. Sono troppo critico nei miei confronti per sentirmi arrivato alla meta.