«Gli ultimi trent’anni hanno visto fallire il tentativo delle forze politiche più antiche di autoriformarsi, e la disfatta delle formazioni sorte all’inizio degli anni Novanta. Ragion per cui ritengo più che mai necessaria una trasformazione istituzionale fondata sul modello francese, maggioritario uninominale a doppio turno e semipresidenziale».
Il politologo Gianfranco Pasquino parte dalla crisi di legittimità dei partiti per rilanciare il suo storico progetto di riforma, ma prende atto che «l’asse si muove in direzione pienamente proporzionale, dopo avere messo in soffitta ogni riferimento all’esperienza d’Oltralpe». E tuttavia teme uno stravolgimento dello stesso modello tedesco grazie a una serie di marchingegni concepiti con lo scopo di conservare lo status quo.
Quali sono i motivi della crisi che investe l’intero assetto partitico?
Valuterei in maniera differente due dati emersi negli ultimi mesi. Considero veritiero l’indice di fiducia verso le forze politiche, crollato sotto il 4 per cento e causato dalla loro incapacità di risolvere i problemi oltre che dai privilegi e l’inamovibilità della Casta. Ma parlare di un astensionismo del 50 per cento non corrisponde alla realtà. Gran parte di chi oggi manifesta l’intenzione di non andare a votare si renderà conto che restare a casa non porta a nulla e si recherà, come sempre, a scegliere il “meno peggio”. Le ragioni della crisi di sistema risiedono in due sconfitte. La prima, negli anni Ottanta, vide fallire il tentativo di autoriforma dei partiti che avevano fondato la Repubblica: il passaggio travagliato e “cosmetico” dal Pci al Pds, lo sforzo vano compiuto da Ciriaco De Mita nella Dc, la parabola del Psi craxiano sfociata in una disfatta. L’altra risale ai primi anni Novanta, quando le aspettative di rigenerazione della politica furono deluse da soggetti rivelatisi peggiori dei predecessori: Forza Italia si limitò a divenire contenitore delle istanze del pentapartito, i Popolari si ridussero a pallida ombra del cattolicesimo democratico, e la scommessa di Alleanza Nazionale di dare vita a una destra moderna ed europea crollò in pochi anni.
Come si può uscire dallo stallo che quei fallimenti hanno provocato?
Anche se prediligo una democrazia parlamentare funzionante, ritengo auspicabile una profonda innovazione che possa trovare sbocco in un regime semipresidenziale di tipo francese. Modello che presuppone una “rottura istituzionale” e forse la presenza di figure carismatiche come Charles De Grulle, assenti nel nostro paese. Tuttavia riscontro significative analogie tra il regime politico italiano e la Francia della Quarta Repubblica: frammentazione politica e parlamentare, ingovernabilità cronica, fratture ideologiche e forti spinte identitarie. Le innovazioni introdotte Oltralpe nel 1958, e l’adozione del meccanismo di voto maggioritario uninominale a doppio turno che ne rappresenta il perno, hanno promosso una ristrutturazione della realtà partitica di impronta bipolare e altamente concorrenziale, basata su due aggregazioni create dall’alleanza tra formazioni affini. Un processo di unificazione, semplificazione, laicizzazione della politica che nessun altro sistema ha mai prodotto, e che per queste ragioni può essere importato nella sua interezza in Italia.
La Lega per la riforma uninominale maggioritaria intende rilanciare l’iniziativa su questo fronte.
Ma deve individuare e scegliere uno dei modelli esistenti di maggioritario di collegio. E penso sia improbabile, viste le differenze tra fautori del meccanismo inglese, sostenitori del modello australiano e supporter del doppio turno francese. Doppio turno che, per dispiegare la sua efficacia innovativa, deve essere aperto ai quattro candidati più votati al primo o a coloro che superano il 12,5 per cento dei suffragi come avviene Oltralpe. Solo così possiamo impedire che le formazioni più piccole esercitino un potere di ricatto verso le forze maggiori in cambio del loro appoggio a un ballottaggio limitato ai due concorrenti più votati all’inizio.
La strada seguita dalle forze politiche è opposta, e guarda a un modello tedesco pienamente proporzionale.
Tutti temono l’applicazione del modello transalpino, che hanno messo in soffitta. Temo peraltro che lo stesso meccanismo in vigore in Germania possa essere stravolto e deformato nel suo adattamento italiano. Sarei favorevole a un proporzionale con un unico sbarramento al 5 per cento, e una scheda in cui accanto al voto per la lista di partito sia prevista la scelta del candidato nel collegio uninominale, che vince conquistando la maggioranza semplice dei suffragi. Altri marchingegni, presenti nel testo Violante al centro delle trattative in corso, sono inganni inaccettabili che renderebbero il sistema “italiesco” e non tedesco.
Molti invocano una legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, per rendere democratici i partiti politici.
È giunto il momento di realizzare un riconoscimento e una disciplina giuridica delle forze politiche. La questione è nelle modalità di applicazione del dettato costituzionale, che devono essere improntate alla massima limpidezza: nella selezione delle candidature interne e per le cariche pubbliche, e nelle forme di finanziamento. Proporrei di ripartire da un progetto messo a punto dal socialista Valdo Spini all’inizio degli anni Novanta, che aveva il pregio di non essere partigiano ma valido per tutti.
Sarebbe favorevole all’abrogazione integrale delle sovvenzioni pubbliche alle forze politiche?
Non è sufficiente il solo finanziamento privato e volontario, che peraltro deve essere soggetto a limitazioni e controlli se vogliamo evitare che partiti e parlamentari finiscano in ostaggio dei più ricchi. Proporrei un rimborso delle spese elettorali chiaro e legato esclusivamente all’elezione in corso, non all’intera legislatura o “a futura memoria”. Un’alternativa valida potrebbe essere il sostegno economico diretto ai gruppi parlamentari, come in Gran Bretagna: gruppi che poi decidono se destinare le risorse all’apparato o alle fondazioni culturali.
Come valuta l’ipotesi di istituire e regolamentare le elezioni primarie per legge?
Sono contrario a irrigidire in norme giuridiche un meccanismo senza dubbio farraginoso – basti pensare a quanto avvenuto nelle oltre 400 primarie celebrate dal Pd – e che ha solo bisogno di essere reso funzionante e trasparente. Le primarie di partito potrebbero semmai incoraggiare un coinvolgimento decisionale della constituency locale, soprattutto in presenza di collegi uninominali maggioritari. Per evitare poi il fenomeno dei candidati paracadutati sul territorio, si può poi stabilire l’obbligo di residenza da almeno tre anni per chi vuole presentarsi.
Nel 1992-93 Giuliano Amato aveva denunciato elementi di continuità fra il monopartitismo fascista e il multipartitismo repubblicano, soprattutto nella vocazione partitocratica all’occupazione delle istituzioni e alla presenza soffocante nella società e nell’economia. Ritiene valida quella riflessione?
Penso che fosse eccessiva e legata indissolubilmente a quel biennio drammatico. Esiste una netta differenza tra l’imposizione autoritaria di un partito unico e una democrazia per quanto malata, imperfetta e debole, in cui l’offerta politica plurale e competitiva è stata assicurata.
Non pensa che la riduzione del numero dei parlamentari sia una scelta demagogica che punta a illudere l’opinione pubblica e a colpire la rappresentanza, rafforzando le oligarchie partitiche sugli eletti?
Un taglio significativo dei parlamentari è ragionevole per diminuire i costi della politica e le ambizioni dei portaborse dei potenti. L’assemblea più forte e funzionante del mondo è il Senato Usa, che conta cento membri. Peraltro anche in un collegio uninominale di 160mila elettori è possibile realizzare il rapporto di responsabilità e conoscenza proprio del maggioritario. L’importante è che tale misura venga bilanciata dalla creazione di un Senato delle autonomie territoriali, e dalla previsione di un limite ai mandati di governo locale e regionale, per evitare incrostazioni di potere. Limite che non può valere per i parlamentari, che devono arrivare nelle Camere già preparati e maturare un alto grado di competenze nel corso dei mandati.