C’è il senso dello Stato in quello sguardo del carabiniere che resta in silenzio, fermo, di fronte alle provocazioni e alle offese di uno dei manifestanti No Tav che lo apostrofa “pecorella”, gli chiede se ha voglia di sparare per poi aggiungere: “non ne vale la pena, con quello che guadagni”. Il video è stato girato e trasmesso dal Corriere tv, commentato oggi in prima pagina sul quotidiano di via Solferino e ha provocato, in tarda mattinata, la vile reazione di alcuni manifestanti che hanno aggredito e picchiato la troupe.
C’è tutto in questo che potremmo un episodio emblematico della protesta dei No Tav che in Val di Susa si battono contro la realizzazione dell’alta velocità. Ci sono il senso di impunità e strafottenza dei dimostranti, l’alto senso delle istituzioni di chi incassa in silenzio. E, soprattutto, c’è l’atteggiamento attendista, meditato, saggio, prudente, fate voi, del ministero dell’Interno. «Ci vuole dialogo», ha detto l’altro giorno la numero del Viminale Anna Maria Cancellieri. Ora, dopo l’aggressione alla troupe che ha girato il video, al dialogo ha aggiunto la parola «fermezza».
Ora lo sappiamo che possiamo essere accusati di essere scattati dopo l’aggressione ai giornalisti. Ma correremo il rischio. Ben sapendo che giudicare da una redazione, da una sedia, di fronte a un computer è sempre troppo facile. Il ministro, il capo della polizia non sono giornalisti, non se la possono cavare con un corsivetto irridente nei confronti di due giornalisti che a diverso titolo si iscrivono alla destra più o meno liberale: Vittorio Feltri e Marco Travaglio. Noi lo abbiamo fatto. Ed è semplice: schierarsi con Feltri, che chiede alla polizia di intervenire una volta e per sempre? O con Travaglio, che parla addirittura di provocazione da parte delle forze dell’ordine?
Usare l’accetta in questi casi è pericoloso, ma parlare di provocazione da parte degli agenti solo perché controllano e pattugliano la Val di Susa suona francamente eccessivo. Sono quattro giorni che il cantiere Tav è in testa a tutti i notiziari, anche per le condizioni del militante Luca Abbà caduto da un traliccio e finito in coma. Ma sono quattro giorni. E sono quattro giorni che lo Stato attende, nicchia. E non riesce a garantire lo svolgersi dei lavori. E il segnale è preoccupante, di debolezza. Il dialogo è sacrosanto, ma i tempi lo Stato deve stabilirli, non subirli.
Non sfugge che a Palazzo Chigi temono il ripercuotersi di proteste per eventuali scontri in Val di Susa. Con ogni probabilità Mario Monti non vuole in alcun modo che in Italia si alimenti una situazione di emergenza sociale. Si spiega certamente così l’attendismo delle forze di polizia. Però, sia pure nell’ambito del dialogo, il Viminale faccia capire chi è che detta le regole (e mentre scriviamo sono cominciate le prime cariche). Altrimenti quelle paroline del manifestante (“pecorella, per quanto guadagni non ne vale la pena sparare“) finiranno con l’insinuarsi come un tarlo nella mente di quel carabiniere che oggi sta difendendo il suo Stato con ostentato orgoglio.