“Avanti, togliti quell’anello”. Il paramilitare serbo sta aspettando che Hadžira Nuhanović, una bosniaca musulmana di etnia rom, ottemperi al suo ordine. La donna dà un’ultima occhiata alla sua fede nuziale d’oro. Non se ne vuole separare: è troppo importante. Accortosi della riluttanza, il paramilitare intima perentoriamente: “Se non me lo dai, ti taglio il dito e me lo prendo”. Ad Hadžira non rimane altro che sfilarsi la fede.
La milizia irregolare guidata da Simo Bogdanović – un meccanico di Ruma (Serbia) conosciuto con il nome di battaglia di “Simo il cetnico” – è arrivata a Skočić, in Bosnia orientale, il pomeriggio dell’11 luglio 1992. Come prima cosa, gli uomini di “Simo il cetnico” (una quarantina in tutto) fanno saltare in aria la moschea del villaggio con delle cariche esplosive. Poi i soldati spianano i fucili e irrompono nelle case per rastrellare soldi, gioielli, televisioni e caffè. I 27 abitanti rom vengono concentrati nel cortile di un’abitazione. Tra loro c’è anche il piccolo Zijo Ribić, che all’epoca ha appena otto anni. La sua famiglia, dopo una breve permanenza a Lussino (Croazia), era tornata nel paese d’origine proprio quell’11 luglio: il padre di Zijo, un muratore, aveva sentito da una radio che la situazione in Bosnia era tranquilla. In realtà, Sarajevo bruciava da qualche mese, l’entroterra bosniaco si stava riducendo a un cumulo di macerie e i diversi nazionalismi danzavano sulle ceneri della Jugoslavia.
I paramilitari cominciano a colpire i “non-serbi” con calci di fucili, manubri di bicicletta e altri oggetti contundenti. Arif Ribić è la prima vittima. Picchiato a sangue da un soldato, l’uomo crolla a terra e viene finito con un colpo di pistola alla testa. Zijo, come tutti gli altri, è costretto ad assistere. Sembra la fine del mondo – quel mondo fatto da estati passate sulla collina dietro casa a giocare con la sorella e da inverni trascorsi con i fratelli intorno al ruscello del villaggio, tutti a piedi scalzi – ed invece è solo l’inizio. I cetnici fanno spogliare gli uomini e li obbligano a fare sesso orale tra di loro. Nel frattempo, Simo Bogdanović prende la sorella quindicenne di Zijo, la lega ad una recinzione con una cintura, le strappa i vestiti e la stupra. Dopo l’abuso, il “comandante” cerca di strapparle due denti d’oro con una pinza. Non ci riesce. Altri soldati seguono l’esempio del capo e trascinano due ragazze minorenni in una casa nelle vicinanze del cortile. Vengono raggiunti da altri due soldati, “Bogdan” e “Tihi”. Lo stupro di gruppo va avanti fino a quando “Simo il cetnico” ordina ai suoi uomini di caricare gli abitanti di Skočić sui camion – compreso il cadavere di Arif Ribić.
È ormai notte quando i veicoli raggiungono Malešić, un borgo limitrofo. La fosse comune è già preparata. I paramilitari fanno scendere i prigionieri uno ad uno e li uccidono con armi bianche o fucilate. Uomini, donne, bambini: non fa alcuna differenza. Zijo Ribić piange. È arrivato il suo turno. “Voglio andare da mia mamma. Dov’è mia mamma?”, chiede ai serbi. I soldati lo mettono davanti al camion e gli rispondono: “Ora ci andrai”. Poi aprono il fuoco, lo accoltellano alla nuca e lo gettano nel fossato insieme alle altre 22 vittime. È ancora vivo, per puro miracolo. Tutta la sua famiglia (padre, madre incinta di nove mesi e cinque fratelli) è stata sterminata. Quando rinviene, Zijo può ancora sentire in lontananza le grida, le voci dei paramilitari e il rumore dei motori dei camion. Arrampicandosi sui corpi, in qualche modo riesce a raggiungere il bordo della fossa e a scappare.
La mattina del 12 luglio Zijo Ribić si sveglia in una casa abbandonata. Si accorge che il braccio sinistro – quello colpito dalle pallottole – sta perdendo sangue. Inizia a vagare nei boschi senza metà, per un tempo indefinito. Ad un certo punto scorge in lontananza una casa da cui esce del fumo. Arrivato lì, una donna è ferma davanti alla porta. Zijo la chiama, implora aiuto. La donna rientra in casa e, dopo pochi attimi, si fanno avanti due soldati serbi dell’Armata Popolare Jugoslava. Quest’ultimi gli offrono da mangiare, lo lavano, gli danno dei vestiti puliti e lo portano all’ospedale di Zvornik, dove Zijo rimane sino alla fine della guerra. Nel 1995, grazie all’intervento della Croce Rossa norvegese, Ribić viene ricoverato presso l’istituto “S. Milosević” di Igalo, in Montenegro. Nel 1996 Zijo è trasferito nell’orfanotrofio di Bijeloj, sempre in Montenegro: rimarrà lì per cinque anni. Nel 2001 torna in Bosnia, a Tuzla – una città con oltre 300mila abitanti, orgogliosamente multietnica – e si diploma alla scuola alberghiera. Passa anche qualche stagione a Rimini, dove lavora come cuoco.
Di quella notte tra l’11 e il 12 luglio 1992, Zijo Ribić si ricorda tutto. Le urla, gli spari, il volto di “Simo il cetnico”. Le cartoline dalla fossa arrivano regolari, e popolano le notti di incubi ricorrenti. Nel 2004, un suo cugino (responsabile dell’associazione rom di Skočić) lo esorta a sporgere denuncia e a portare il caso all’attenzione dell’opinione pubblica. Dopo qualche mese di riflessione, Zijo si convince e accetta l’invito. Sa che non sarà facile. A parte l’aiuto del parente, la comunità rom non gli concede alcun tipo di sostegno: «Il mondo rom è strutturato in clan – dice Ribić – ed essendo rimasto senza la mia famiglia, non avevo più nessuno». Il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, inoltre, non accetta più nuove denunce, dal momento che l’Onu ha da poco elaborato una completion strategy (con la risoluzione 1053/2003) per alleggerire il carico di lavoro della corte. L’unico tribunale nazionale che possa garantire un minimo di imparzialità è la nuova Camera per i crimini di guerra di Belgrado, costituita dalle autorità nazionali e internazionali nel 2003. Zijo si rivolge così a Nataša Kandić , una famosa attivista serba per i diritti umani che offre immediatamente il suo aiuto, e parte per Belgrado con il biglietto del treno nella tasca della giacca e una valigia di orrori da aprire davanti ai procuratori.
«Avevo paura, ero preoccupato», racconta Ribić. «Non sapevo davvero cosa aspettarmi. Avevo voglia di far vedere che noi rom esistiamo». Zijo, che ha rifiutato il programma di protezione testimoni, è il primo rom a denunciare i crimini commessi contro il suo popolo. Si stima che circa 30mila rom siano stati soggetti alla pulizia etnica durante il conflitto. Nelle aule del tribunale, Ribić si confronta vis-à-vis con Simo Bogdanović e gli altri cinque paramilitari imputati per crimini di guerra. Sono le persone che gli hanno portato via tutto nel giro di una singola notte. Persone che tuttavia non riesce ad odiare. Zijo ha assistito alla disgregazione violenta del suo Paese sotto i colpi dell’odio. Da quando è tornato in Bosnia, ha visto il suo Paese diviso sia a livello istituzionale che, soprattutto, culturale e identitario. Ha osservato sgomento la profondità del solco tra le generazioni scavato dalle ideologie nazionaliste. E ha potuto toccare con mano la profezia dell’ex presidente bosniaco Alija Izetbegović: «La guerra è finita, ma verrà la terribile pace».
In My War Gone By, I Miss It So, libro di memorie sulla guerra bosniaca, il fotoreporter inglese Anthony Loyd scrive: «Commesso o subito, il male lascia una traccia indelebile nell’iride. Lo si può vedere balenare nei momenti di introspezione, quando i muscoli si rilassano». Anche negli occhi di Zijo Ribić – ora un cuoco ventottenne gioviale e dotato di un caratteristico humour bosniaco – si può scorgere il segno del male, anche se è quasi impercettibile. Lo si intravede mentre fuma una sigaretta, oppure nelle pause per trovare le parole. È un male compensato dall’anelito di giustizia, dalla volontà di conservare la dignità del suo popolo attraverso la storia del massacro di Skočić e dalla necessità di «andare avanti», di spezzare la spirale del risentimento: «La giustizia terrena mi interessa fino ad un certo punto. È la verità a interessarmi, ed in qualche maniera è già venuta fuori. Credo più nella giustizia di un altro mondo. In quella degli uomini ci credo relativamente. Una sentenza – conclude Ribić – non riporta certamente indietro la mia famiglia».