Si corre più del previsto. In quella grande partita di Risiko che è diventata la questione israelo-iraniana le lancette dell’orologio vanno veloci. Così veloci che nelle ultime ore il premier dello Stato Benjamin Netanyahu avrebbe deciso di dare una sterzata al fronte militare. Con risvolti che rischiano di estendere la geografia di un conflitto che quasi tutti cercano di evitare.
Dicono le voci – puntualmente smentite dall’entourage del primo ministro – che «Bibi» (come viene soprannominato Netanyahu) sarebbe preoccupato. Teme che la questione siriana prenda il sopravvento a Washington e che non resti più spazio per discutere il «protocollo nucleare iraniano». Concedendo altro tempo a Teheran per costruire la bomba atomica. Non sorprende che Gerusalemme non abbia ancora preso una posizione netta contro il regime siriano di Bashar al-Assad e contro i crimini commessi contro i civili.
Secondo i bene informati, Netanyahu non vuole spingere la comunità internazionale ad avventurarsi a Damasco prima di aver risolto la «grana» iraniana. Un silenzio talmente assordante, quello dello Stato ebraico, da fare ancora più rumore dopo che sia Hamas (la formazione che comanda nella Striscia di Gaza) sia gli arabo-israeliani hanno chiesto ad Assad di andarsene. Perché i miliziani palestinesi hanno una sede distaccata in Siria, mentre i secondi hanno sempre fatto il tifo per quel regime. Ma il ragionamento del premier israeliano è chiaro: se l’Occidente si comporta in Siria come ha fatto in Libia, ci vorranno ancora mesi prima che decida di fare qualcosa contro l’Iran.
In realtà dietro alla fretta di Netanyahu c’è ben altro. Ci sono i dossier del Mossad, il servizio segreto israeliano, e le informazioni che arrivano da Teheran. Oltre ad essere in una fase avanzata del programma nucleare, la Repubblica islamica ha deciso di guardare con più attenzione al Libano, dove si trovano gli alleati di Hezbollah. Un paese instabile e al confine con Israele, con un governo precario e una formazione – quella di Hezbollah, appunto – che non vede l’ora di far fuori lo Stato ebraico. Lo dimostra anche la seconda guerra del Libano del 2006. Durante la visita del collega di Beirut, il ministro iraniano della Difesa, Ahmad Vahidi, ha detto che «l’obiettivo strategico di Teheran è di rafforzare l’esercito libanese». La dichiarazione, stavolta, non è stata fatta filtrare. Lo si trova sul sito ufficiale del ministero. E racconta due cose: da un lato pare una sorta di ammissione sull’esistenza di un corridoio Iran-Libano dove passa di tutto, dalle armi ai soldi. Dall’altro, suona come un segnale a Damasco: la Repubblica islamica non crede più in Assad e cerca così di legare ancora di più con il Libano.
Ma non è solo questo. La difesa israeliana da giorni è preoccupata per il ruolo della Russia. L’Intelligence di Gerusalemme ha rivelato che i miliziani di Hezbollah avrebbero comprato da Mosca una grossa partita di missili anti-carro di fabbricazione russa. Armi in grado di bucare non solo il sistema di difesa israeliano (chiamato «Windbreaker»), ma anche di sfondare i carri armati. Sullo sfondo resta il timore, per ora non provato, che buona parte delle munizioni del regime di Assad sia finita nelle mani di Hezbollah.
Non che Israele non si stia già muovendo. Nelle stesse ore in cui l’Iran annunciava i suoi progetti nei confronti del Libano, il governo Netanyahu dava l’ok alla vendita di dispositivi militari ultra sofisticati all’Azerbaigian per un valore di 1,4 miliardi di dollari. Nella commessa, oltre ai caccia militari e al sistema di difesa anti-missile, ci sono anche i droni, sempre più importanti per risolvere i conflitti. Cosa se ne faccia lo Stato caucasico di tutto questo materiale non è chiaro. Quel che è chiaro è il ruolo del Paese nella crisi tra Iran e Israele: oltre a trovarsi al confine con la Repubblica islamica, è dalla capitale Baku che sono partiti decine di azeri poi arrivati in Iran per eliminare, uno a uno, gli scienziati del programma nucleare. L’Azerbaigian ha ottimi rapporti con gli Usa e con Israele. Il sospetto di Teheran è che a mandarli, quei cittadini-killer dello Stato vicino, siano stati quelli del Mossad. A questo, si aggiunge anche un dettaglio non di poco conto: oltre alla tecnologia militare, a Baku arriverà anche un nutrito numero di personale israeliano esperto in materia di sicurezza.
E allora, lo scenario: complesso, intricato. Costruito e smontato. E poi rimontato ancora. Ecco, lo scenario vede Israele e Iran fare già le loro mosse: Gerusalemme porta uomini e tecnologia a ridosso del confine iraniano, Teheran (con l’aiuto dei russi) rafforza l’esercito libanese composto per buona parte dai miliziani anti-israeliani di Hezbollah.
Sarà questo Risiko complicatissimo a fare da sfondo all’incontro a Washington, il prossimo 5 marzo, tra il premier israeliano e il presidente Usa Barack Obama. Netanyahu chiederà agli Usa di accelerare i tempi. Prendendo spunto anche dall’ultima visita fallimentare in Iran degl’ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). E ricordando che gli stessi americani hanno sostenuto che il programma nucleare iraniano fosse più avanti del previsto.
Ma Obama non sembra intenzionato a scatenare un conflitto il Medio Oriente, con il rischio di farlo esplodere del tutto. Il presidente americano sarebbe più orientato a un mix di sanzioni e azioni d’intelligence mirate contro Teheran. Netanyahu, invece, ha fretta e paura. Un nemico così vicino alla bomba atomica è un pericolo per l’esistenza stessa d’Israele. Cosa che ha già fatto notare il 19 febbraio scorso a Tom Donilon, il consigliere americano della sicurezza nazionale inviato a Gerusalemme a calmare le acque. Donilon è dovuto tornare negli Usa a raccontare la rabbia di Netanyahu e l’intenzione del premier a non farsi sorprendere da Teheran. Costi quel che costi.