La crisi della Grecia ha compiuto due anni. Ma dopo 24 mesi non si vede ancora la luce in fondo al tunnel. Il Paese, come spiegato nel giugno 2011 dal Parlamento europeo, è insolvente. Il primo bailout del maggio 2010 da 110 miliardi di euro non è servito e senza l’approvazione del secondo piano di salvataggio internazionale, il fallimento è sempre più vicino. Tuttavia, perché arrivino i nuovi 130 miliardi di euro, occorre trovare un accordo sulla ristrutturazione del debito ellenico. Il prossimo 6 febbraio, come riportato dal ministero delle Finanze Evangelos Venizelos, si terrà un summit europeo dedicato all’emergenza Grecia. Linkiesta ha provato a riassumere tutte le tappe di questa crisi nata a fine 2009 e diventata continentale nell’arco di pochi mesi.
Dicembre 2009 – maggio 2010
Giunto al governo verso la fine del 2009, il premier socialista George Papandreou attacca immediatamente il suo predecessore Antonis Samaras, leader del partito di centrodestra Nea Dimokratia. «Abbiamo trovato un buco di bilancio da diversi miliardi di euro», spiega alla nazione e all’Ue Papandreou. I mercati non la prendono bene, specie perché le informazioni sono frammentarie e c’è il timore che Atene abbia già truccato i bilanci in svariate occasioni. Bruxelles vuole vederci chiaro e inizia una serie di incontri con il premier Papandreou che, dopo una lunga dialettica fatta di mezze verità, capitola e chiede ufficialmente il sostegno della comunità internazionale. Viene approvato un programma di salvataggio da 110 miliardi di euro, condotto da Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca centrale europea (Bce) e Unione europea. Nasce la troika, che di mese in mese dovrà controllare lo stato delle riforme che la Grecia si è impegnata a portare avanti per avere i fondi del bailout, divisi in sette tranche.
Giugno 2010 – dicembre 2010
Nonostante sia stato il primo esempio di un Paese dell’eurozona a essere salvato, la Grecia non spaventa troppo i mercati finanziari. Del resto, la missione del Fmi è appena iniziata e servono alcuni mesi prima di avere un quadro della situazione. I 110 miliardi di euro erogati in diverse tranche serviranno, in teoria, a proteggere Atene dagli shock che potrebbe avere se andasse sul mercato obbligazionario per il rifinanziamento del debito pubblico. I tassi d’interesse a cui scendeva la Grecia prima del bailout, infatti, erano proibitivi. Eppure, dopo l’estate, emergono i primi dettagli sul buco di bilancio in cui si trova il Paese. Il dipartimento del debito pubblico è costretto ad ammettere «alcuni errori» nella compilazione del deficit per l’anno passato, che viene rivisto al rialzo. Nella girandola di sfiducia rientra anche Eurostat, l’organismo statistico europeo, colpevole di non aver vigilato come avrebbe dovuto. Nell’autunno del 2010 la missione della troika evidenzia che le difficoltà che sta incontrando il Paese nel processo di riforme sono ben maggiori rispetto alle previsioni e si parla per la prima volta di un possibile nuova intervento finanziario. Ma il focus è su Dublino. La situazione finanziaria dell’ex Tigre celtica la costringe a chiedere l’aiuto internazionale. Viene quindi approvato un bailout da 85 miliardi di euro, ma a spaventare è il contagio della crisi europea dei debiti sovrani.
Gennaio 2011 – luglio 2011
Con il bailout dell’Irlanda, che sembra indirizzata verso un buon piano di rientro delle difficoltà, la Grecia torna protagonista. È nel gennaio dell’anno scorso che iniziano le indiscrezioni su un’eventuale uscita di Atene dall’eurozona. Questo processo, tuttavia, non è possibile. L’articolo 50 del Trattato di Lisbona disciplina infatti solo l’uscita dall’Unione europea, non dalla zona euro. Parallelamente, cominciano anche le discussioni sulla riforma dei Trattati, la cui conferma arriverà poi solo in autunno per voce del cancelliere tedesco Angela Merkel. In questi sei mesi sotto i riflettori va soprattutto il Portogallo che, tanto silenziosamente quanto improvvisamente, chiede di poter ottenere un sostegno internazionale in maggio, che sarà pari a 78 miliardi di euro. Si parla apertamente di contagio della situazione ellenica, ormai diventata continentale. Le banche d’investimento fanno i conti con quanti asset ellenici hanno in portafoglio e si scopre che le più esposte sono quelle tedesche e francesi. Ma nel frattempo la sfiducia degli investitori colpisce Spagna e, soprattutto, Italia. Dopo tre mesi di panico generalizzato, con Roma che entra nel calderone dei Paesi a rischio, il 21 luglio si riunisce il Consiglio europeo. L’obiettivo è quello di creare una soluzione all’emergenza ellenica. Viene deciso che servono altri soldi, circa 130 miliardi di euro, per salvare Atene. Ma non solo. Viene introdotto il Private sector involvement (PSI), cioè la partecipazione dei creditori privati nella ristrutturazione del debito greco, circa 360 miliardi di euro. Le banche, i fondi d’investimenti, i fondi pensioni e gli hedge fund detengono circa 206 miliardi di euro di debito greco e si impegnano a sopportare un haircut del 21 per cento su questi asset. Vale a dire che accettano, su base esclusivamente volontaria, una svalutazione del 21% sui bond detenuti in portafoglio e uno swap fra i titoli di Stato. Per ogni bond detenuto, il governo ellenico ne darà un altro con una scadenza più lunga e con un coupon minore. Entra in scena l’Institute of international finance (Iif), la lobby bancaria internazionale guidata dal ceo di Deutsche Bank, Josef Ackermann. L’Iif cura gli interessi dei creditori privati e inizierà un lungo braccio di ferro con il governo greco, in quanto vorrebbe avere lo stesso trattamento dei creditori pubblici, come la Bce. Il numero uno dell’istituzione di Francoforte, Jean-Claude Trichet, ribadisce una volta per tutte che «la Grecia non fallirà e non si dichiarerà insolvente», ma i dubbi rimangono. L’agenzia di rating Standard & Poor’s spiega che in caso di accordo sul PSI, non ci sarebbe un default completo, ma un default selettivo, dato il carattere volontario dell’azione. E proprio quest’ultimo punto permette alla Grecia di evitare l’innesco del pagamento dei Credit default swap (Cds), i derivati che proteggono dal fallimento di un titolo. Così ha deciso l’International swaps and derivatives association (Isda), l’ente internazionale che regolamenta il mercato dei derivati, non senza diverse polemiche. La Grecia, dal canto suo, si impegna a una maggiore disciplina fiscale e ad un processo di consolidamento del debito che porta in Piazza Syntagma, la più grande di Atene, migliaia di persone.
Agosto 2011 – novembre 2011
Il sentore iniziale è che il nuovo patto per salvare la Grecia possa essere una soluzione sostenibile. Ma l’illusione che tutto sia risolto dura meno di 30 giorni. Le proteste a Piazza Syntagma durano per tutto agosto e i funzionari della troika sono riluttanti ad approvare la review che permetterebbe ad Atene di ottenere la nuova tranche di aiuti. Fra settembre e ottobre continuano a esserci ritardi nelle verifiche tecniche, complici le manifestazioni che in molti casi vanno a interferire proprio con la troika. Tutto cambia fra il 21 e il 22 ottobre. In quelle date viene diffusa ad alcuni giornali, fra cui Linkiesta, la Debt sustainability analysis (Dsa) sulla Grecia. Viene evidenziata tutta la sofferenza in cui versa il Paese. Il debito pubblico è pari a 365 miliardi di euro, il 160% del Prodotto interno lordo. Questo è destinato ad aumentare ancora prima che sia completata la piena applicazione del programma di salvataggio. Non è un caso, infatti, che secondo le ultime stime del Fmi, il rapporto debito/Pil sia ora al 165 per cento. Il 22 ottobre si afferma che, anche avallando il programma PSI, il ritorno alla normalità sarebbe troppo lungo e periglioso. In particolare, con un haircut del 50% sul debito dei privati, il debito potrebbe tornare a quota 120% del Pil a fine 2020. Se invece l’haircut fosse del 60%, il debito scenderebbe al 110% nello stesso periodo temporale. Si cerca quindi di trovare una soluzione capace di rendere sostenibile la ristrutturazione del debito ellenico. Nel Consiglio europeo del 26 ottobre i leader europei decidono di optare per un haircut del 50%, nonostante i creditori privati guidati dall’Iif fossero in prevalenza contrari. Eppure, non basta ancora. Il Fmi torna ad Atene e chiede maggiori riforme, fra cui un taglio di 150mila dipendenti pubblici e una completa revisione del sistema pensionistico. Il governo Papandreou si rivolge alla nazione chiedendo uno sforzo comune, ma la risposta è l’ennesimo sciopero generale. Alla vigilia del G20 di Cannes, 3 e 4 novembre, succede l’inimmaginabile. Papandreou comunica al mondo di voler indire un referendum sulla permanenza o meno della Grecia nell’eurozona. I leader del G20 accolgono con scetticismo questa decisione e fanno tornare sui suoi passi Papandreou, che dopo poco tempo rassegnerà le dimissioni. Al suo posto arriva l’ex membro della Bce Lucas Papademos, un tecnico assai più vicino alla visione della troika. Papademos però lascia uno dei ruoli chiave, quello di ministro delle Finanze, a Evangelos Venizelos. Quest’ultimo, subentrato alcuni mesi prima a George Papaconstantinou, è odiato nel Paese per via di una storia politica poco limpida e inizia una lotta con il direttore generale dell’Iif, Charles Dallara, considerato da Venizelos «un affamatore». Intanto, la troika chiede uno sforzo maggiore e rilascia l’ennesima tranche di aiuti del primo bailout. Nelle casse del Tesoro, come spiega il Fmi, ci sono solo 11 miliardi di euro e si avvicina il 20 marzo, data in cui scade un bond da 14,4 miliardi di euro. In assenza di un accordo sul secondo piano di salvataggio, non ci sarebbero abbastanza fondi per onorare quel debito. Il presidente della Bce che ha sostituito Trichet, Mario Draghi, ha ricordato che «la Grecia è un caso eccezionale», ma l’impressione degli addetti ai lavori è che quello ellenico sarà il modello utilizzato nelle future crisi analoghe a quella greca.
Giorni nostri
Il dialogo fra l’Institute of international finance e il governo ellenico è deragliato nelle ultime settimane. La bozza dell’accordo di massima, che doveva essere approvata entro il 30 gennaio secondo l’Ue, prevede che i creditori privati subiscano una svalutazione sul Net present value (Npv, o valore attuale netto) fra il 65% e il 75 per cento. Inoltre, i bond detenuti sarebbero scambiati con obbligazioni di nuova emissione di durata trentennale, un grace period di 10 anni e un coupon del 3,6 per cento. Troppo poco per l’Iif, ma soprattutto per i fondi hedge. Al contrario delle banche, gli hedge fund sono più riluttanti ad accettare l’accordo. Questo perché gli istituti di credito hanno potuto giovare del programma Long term refinancing operation (Ltro) messo in campo dalla Bce in dicembre e che sarà ripetuto in febbraio. Grazie a questa operazione, le banche europee hanno ottenuto un finestra di liquidità di circa 490 miliardi di euro, utile per le esigenze di rifinanziamento per il 2012. Gli hedge fund invece no e chiedono un trattamento equivalente a quello dei creditori pubblici, come la Bce. L’Eurotower ha infatti in pancia circa 40 miliardi di euro di titoli ellenici, rastrellati sul mercato secondario tramite il Securities markets programme (Smp), lo speciale programma utilizzato per sostenere i Paesi in difficoltà sul mercato obbligazionario. Il governo ellenico non ci sta e minaccia l’adozione di una Cac (Collective action clause, o clausola di azione collettiva) retroattiva, capace di forzare la ristrutturazione del debito secondo le proprie condizioni. Uno scenario già visto con l’Argentina nel 2002 e che ha fatto infuriare i fondi hedge, che hanno minacciato azioni legali contro il governo ellenico nel caso di introduzione della Cac. Quello che è certo è che il tempo a disposizione è sempre meno. Il ministro delle Finanze Venizelos ha affermato oggi che uno speciale vertice europeo sulla Grecia si terrà lunedì 6 febbraio. L’obiettivo sarà quello di capire cosa fare di Atene. Il Fondo monetario internazionale, guidato dalla francese Christine Lagarde, rilascerà il suo ultimo rapporto su Atene entro pochi giorni. Sarà utile per capire quanti e quali sono i margini operativi per ulteriori riforme. Il timore è che l’unica via sia quella dell’insolvenza. Proprio quanto l’Ue aveva già ammesso nello scorso giugno.
Twitter: @FGoria