“La diossina dell’Ilva uccide”: una perizia su tumori e morti anomale

“La diossina dell’Ilva uccide”: una perizia su tumori e morti anomale

Migliaia di capi di bestiame abbattuti e decine di morti “anomali”. Fuori statistica. Troppo giovani, e decisamente troppi. C’è voluto tutto questo, e almeno dieci anni di battaglie ambientaliste, per far arrivare a Taranto il primo, importante, risultato. Dai camini dell’Ilva fuoriescono diossine e numerose sostanze tossiche che hanno causato la morte dei cittadini nel quartiere Tamburo e nel resto della città.

Lo hanno scritto i periti chimici nella prima parte della maxiperizia consegnata qualche giorno fa in procura. Le emissioni di gas, vapori, polveri e diossina che ogni giorno, e ogni notte, vengono sputate fuori dai camini dell’Ilva crea pericoli per la salute dei suoi lavoratori e della gente. Gli animali abbattuti nei mesi scorsi perchè ammalatisi pascolando nell’area industriale di Taranto avevano quasi impresso il marchio di quelle emissioni, e l’azienda non ha fatto tutto quello che le compete per evitare quei pericoli. Queste le conclusioni dei tre super esperti che hanno anche precisato: «Le emissioni rientrano nei limiti di legge».

La perizia si inquadra nell’incidente probatorio dell’inchiesta aperta dal procuratore Franco Sebastio, dall’aggiunto Pietro Argentino e dal sostituto Mariano Buccoliero nella quale risultano indagati Emilio e Nicola Riva, il direttore Luigi Capogrosso, il capo area cokerie Ivan Di Maggio, il capo area Agglomerato Angelo Cavallo. Sono accusati di disastro colposo e doloso, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, avvelenamento di sostanze alimentari, inquinamento atmosferico, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose.

Il tutto è nato da un esposto depositato dal comune di Taranto un anno e mezzo fa, arrivato due anni dopo la denuncia, circostanziata e precisa, di Peacelink Taranto che dopo aver fatto analizzare al laboratorio INCA di Lecce un campione di formaggio, scoprirono che era contaminato da diossine, furani e PCB oltre i limiti di legge. La somma di diossine e PCB supera di 3 volte i limiti di legge. Un bambino di 20 kg non ne dovrebbe mangiare più di 2 grammi per non superare la DGA (Dose Giornaliera Accettabile).

L’avvocato Luca Masera, che segue il sindaco tarantino Ippazio Stefàno, ha evidenziato la «drammatica incidenza di patologie oncologiche tra la popolazione residente nell’area della provincia e soprattutto del comune di Taranto, incidenza del tutto anomala rispetto a quella che si riscontra in province o regioni limitrofe», ha scritto nel documento che Linkiesta ha potuto visionare. E si citano i due studi epidemiologici del 2007 e del 2009, dove queste evidenze sono eclatanti. Tra i maschi c’è un eccesso di tumore del polmone, della vescica, della pleura. Le diossine sarebbero, secondo gli studi, responsabili dei troppi linfoma non Hodgkin comparsi indifferentemente tra uomini e donne, anche in giovane età.

Basti pensare che nel 2005 fuoriusciva dall’Ilva il 93% delle emissioni globali in Italia e due anni dopo l’Arpa pugliese evidenziò valori largamente più elevati degli standard adottati a livello europeo. Forse della legge italiana più permissiva che altrove, l’Ilva ha potuto sempre dichiarare di «essere nella norma». Una norma che ha causato un’infinita catena di lutti.

A fare luce su questo ci dovrà pensare la procura tarantina che ha commissionato una nuova indagine epidemiologica a tre super esperti: il professore Annibale Biggeri, docente ordinario all’università di Firenze e direttore del Centro per lo studio e la prevenzione oncologica; Maria Triassi, direttrice di struttura complessa dell’area funzionale di igiene e sicurezza degli ambienti di lavoro ed epidemiologia dell’azienda ospedaliera universitaria Federico II di Napoli, e il dottor Francesco Forastiere, direttore del Dipartimento di Epidemiologia dell’Asl di Roma.

L’indagine dovrebbe essere pronta entro fine febbraio e prima dell’estate dovrebbe arrivare la decisione sui rinvii a giudizio e quindi il processo potrebbe finalmente entrare nel vivo.
«Non temiamo la prescrizione – dice a Linkiesta l’avvocato Masera – i tempi sono sufficienti. I reati sono gravi. Nel formulare l’esposto di denuncia abbiamo volutamente rifarci allo stesso principio utilizzato dal procuratore di Torino Guariniello nel processo Eternit, e così non sarà necessario attestate la relazione causa effetto tra i fumi dell’Ilva e i singoli decessi: con il processo torinese siamo di fronte al primo caso in Italia in cui una Procura abbia chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio per la morte non solo, come di consueto, di soggetti esposti al fattore di rischio per ragioni lavorative (o comunque connesse all’ambiente di lavoro, come i processi per le mogli di operai che erano entrate in contatto con l’amianto lavando gli abiti da lavoro del marito), ma anche per le morti dovute all’esposizione ambientale di tutta la popolazione residente nei dintorni dell’impianto.

Un procedimento, dunque, che presenta molti profili di affinità con lo scenario da noi delineato nell’esposto, e sul quale ci pare utile soffermarci, tanto più che – ed è questo il dato che più ci preme sottolineare – il rinvio a giudizio è stato ottenuto sulla base della sola evidenza epidemiologica, e il processo anche in fase dibattimentale si sta sviluppando nel senso di ritenere non rilevante la prova della derivazione causale delle singole forme patologiche».

Secondo i chimici, poi, la contaminazione degli animali, poi abbattuti, che pascolavano nelle vicinanze del Siderurgico, viene legata soprattutto all’ attività di sinterizzazione, nell’area agglomerazione della più grande fabbrica di acciaio d’Europa. Un’azienda, l’Ilva di Taranto che per i periti non ha assolto a tutti i compiti in materia di tutela ambientale. Perchè, ad esempio, dalle analisi «emerge la quantità rilevante di polveri che viene rilasciata dagli impianti, anche dopo gli interventi di adeguamento». L’indice viene puntato soprattutto sulle polveri che fuoriescono dall’acciaieria per il fenomeno dello “slopping”, cioè quell’espulsione di gas e nubi rossastre dai camini. Non solo, ma poichè le emissioni provengono da impianti nei quali sono svolte anche attività di recupero, già dal lontano 17 agosto 1999 le stesse emissioni «dovevano essere presidiate da sistemi di controllo automatico in continuo dei parametri inquinanti», che invece non ci sono. 

Un richiamo forte i periti lo rivolgono all’Ilva, nelle loro conclusioni, sull’applicazione delle Bat (le migliori tecnologie possibili) in materia ambientale. «Esse risultano in generale adottate – scrivono – anche se in alcune aree si rileva solo una parziale applicazione delle stesse, ovvero l’adozione di Bat che garantiscano una minore performance ambientale rispetto a quelle migliori». In qualche caso, si sottolinea, si fa riferimento più al protocollo europeo (Bref) che alle Bat, la cui adozione «garantirebbe la riduzione degli inquinanti emessi». «I periti della Procura hanno dato una risposta limpida ad una città inquinata che ha fame di giustizia e sete di verità», hanno commentato le associazioni ambientaliste. Ovvero, si può e si deve fare molto di più.

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