La moda italiana fatta in famiglia non funziona più

La moda italiana fatta in famiglia non funziona più

Non termina l’ondata di vendite di marchi italiani verso la Francia. Dopo le prime cessioni di alcuni anni fa, tra cui quella di Gucci (Pinault-Printemps), Bulgari ha preso la via di Louis Vuitton, e anche Brioni è stato acquisito dallo stesso gruppo di Gucci. Non sono più a capitale italiano neanche Valentino e Ferré.

Cosa sta succedendo alla moda italiana che oggi a Milano dà il via alle sfilate? Sta crollando un mondo? Lo abbiamo chiesto alla professoressa Ketty Pucci-Sisti Maisonrouge, che insegna marketing della moda e del lusso alla Columbia University di New York. Nata in Italia, ha vissuto in Svizzera e ha studiato in Francia, tra l’Institut d’Etudes Politiques e la Sorbona. Tra natali nostrani ed esperienze con i “cugini”, si trova nella posizione giusta per spiegare a Linkiesta la situazione.

Professoressa Maisonrouge, l’Italia sta vendendo i gioielli della sula industria della moda. Il sistema dell’Italian fashion è in declino?
Al contrario, penso che il sistema stia combattendo, altrimenti nessuno dei marchi italiani sarebbe inseguito e comprato da altri gruppi! Le acquisizioni si sono svolte in un periodo di tempo piuttosto lungo (Gucci è stata acquistata da Pinault ben quindici anni fa), e il fatto che questo trend continui è un tributo ai brand italiani del lusso, che rimangono tra i più ambiti al mondo. I brand italiani ancora oggi sono sinonimo di creatività, qualità, eleganza sofisticata e discreta con un tocco sexy. A Shanghai, Abu Dhabi, Mosca o Parigi, sono i primi in termini di domanda, hanno i migliori negozi e la migliore visibilità. Ma se i proprietari di questi marchi vogliono vendere, o sono corteggiati da un gruppo che ha piani di espansione maggiori per il brand, è certo che finiscono in mani stranieri: i player principali del settore sono Pinault-Printemps, Lvmh e Richemont.

Parliamo di debolezze. È difficile fare moda in Italia, o il problema è proprio fare impresa in Italia?
Non penso sia diventato troppo difficile fare impresa in Italia, che è ancora uno dei principali paesi esportatori di lusso e moda. Il problema è che le case di moda devono essere in grado di competere su scala più grande, e hanno bisogno di accesso a fondi sostanziosi. È un limite, perché la maggior parte delle case di moda italiane è ancora “di famiglia” per scelta. Ciò consente l’indipendenza che ben combacia con la mentalità italiana. L’imprenditore/proprietario preferisce reinvestire profitti o fare un ipoteca sugli asset, piuttosto che cedere parte del controllo a un investitore esterno. Ma l’indipendenza significa anche non potersi espandere troppo.

Una sfillata di Rocco Barocco nella scorsa edizione

Cosa hanno fatto i francesi meglio degli italiani? Il “modello francese” potrebbe essere importato in Italia?
Le aziende italiane hanno flirtato con questo modello per un po’: alla fine degli anni Novanta, Prada aveva preso Helmut Lang, Church, Jil Sander oltre a una quota in Fendi. Ma non era il modello migliore per il gruppo, che pochi anni dopo ha rivenduto molti asset. Ma ci sono altri modelli che funzionano bene. Possiamo osservare Armani, con un modello che include moltissimi marchi. Oppure Tod’s, Ferragamo, Loro Piana, e perfino i francesi di Hermès: sono diversi da Pinault e Vuitton, e comunque sono vere “success stories”. Bernard Arnault ha creato un modello nuovo con Vuitton. Il sistema di Arnault ha molti vantaggi per quanto riguarda il potere contrattuale (anche nell’advertising), e consente di distribuire meglio il rischio tra più brand, nel caso una particolare collezione non piaccia al mercato una certa stagione. Ma anche nel modello privato-controllato ci sono vantaggi: senza la frenesia finanziaria, ci si può concentrare sullo sviluppo di lungo periodo. I marchi del lusso sono basati sulla tradizione, la tradizione si forma col tempo.

Pensa che le vendite avranno effetto sulla creatività della moda italiana?Anna Wintour ha dichiarato di recente “La moda di Milano non vale più di tre giorni”. Maria Silvia Venturini Fendi ha replicato che “New York allora ne vale due”. 
Non penso che la creatività sia scomparsa in Italia. Penso però che i piccoli brand italiani non possano mostrare tutta la propria creatività, perché non si possono permettere i budget milionari necessari a metter su un fashion show. Torniamo qui al problema del controllo e della finanza esterna.

Se lei venisse nominata “Ministro della moda”, cosa farebbe?
Gli artigiani italiani stanno morendo, e i giovani non sono attratti dal settore. Creerei un programma di incentivi per incoraggiare le fashion house ad assumere giovani designer; stimolerei le esperienze all’estero; farei in modo che la professione manuale appaia più “cool”!

E se lei fossa la Ceo di una casa francese con due marchi italiani nel protafoglio, cosa farebbe con loro?
Lascerei che siano loro stessi, creativamente parlando! Io sono italiana di nascita, e francese di formazione e matrimonio, ma anche americana: penso che ognuno possa diventare il meglio che può, se s’impegna e se ci mette il cuore. Gli italiani vivono in un paese ammirato per bellezza e Dolce Vita, ed è facile farsi tentare di godersela e basta!  

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