«Non c’è vita che almeno per un attimo non sia stata immortale». Quasi una eco la voce della poetessa stupita delle manifestazioni vitali e lei stessa oggetto di stupore quando le viene conferito il Nobel nel 1996. Nessuno conosce a fondo la sua scena da credere in un merito tanto universale e nemmeno è nota la sua ritrosia a dichiararsi parte di movimenti letterari o intellettuali, a farsi intervistare per esibire ideologie e manifesti utopici. Wisława Szymborska lascia che sia la propria fine a parlare a sproposito, a recidere battaglie, stagioni, dibattiti, assonanze e sipari nati e voluti dal silenzio.
La sua è più una resistenza alla storia iniziata nel 1941 quando, per fuggire alle deportazioni, lavora come impiegata alle ferrovie e poi, tra qualche illustrazione e racconto, assiste a un esordio poetico tra critici e redattori convinti di un valore pressoché modesto. Cerco la parola viene pubblicata per prima nel ’45, nel periodo universitario alla facoltà di lettere e sociologia di Cracovia, studi che Szymborska interrompe per lavorare come segretaria di redazione e avvicinarsi alla prima raccolta di versi a quasi trent’anni.
Dirigere la sezione poetica di un’importante rivista e far parte dell’associazione degli scrittori polacchi segnano inoltre per lei sia un avanzamento, sia un’iniziale difesa del potere con la stessa determinazione che la convince a restituire alla censura del Partito operaio la tessera ipocrita. Le anime di Wisława si sfidano così a reinventare il luccichio dei sogni e guardare a una realtà che fissa non è, ma perde quel che trova e si compone di istantanee fatte anche di viaggi da Cracovia a Varsavia. In mezzo convivono passaggi di letture e traduzioni da poeti barocchi francesi a un’antologia della poesia ebraica, fino agli anni Ottanta e alla clandestinità di Solidarność che la premia tra gli scrittori d’opposizione.
Quel che nella sua poetica si compone di osservazioni all’apparenza semplici, quadri abbandonati e ripresi attraverso brevi dettagli, si fa carne di personaggi mitici e clochard rassegnati, speranze che tendono i fili di destini simili. E allora vincono le piccole parole, le differenze tra i poeti decadenti e coloro che scrivono per conoscere il mondo; vince il sesto atto della tragedia, quello più importante per «il risorgere dalle battaglie della scena, l’aggiustare le parrucche, le vesti, l’estrarre il coltello dal petto, il togliersi il cappio dal collo, l’allinearsi tra i vivi con la faccia al pubblico».
Wisława Szymborska mostra un inventario di foto della sua vita, 2009
Non c’è semplicità più dirompente di versi che ammettono ed elevano in ritratti filosofici la consistenza ingannevole delle prescrizioni, dei permessi concessi per scegliere, dopo attenta riflessione, ciò che va reso fino all’ultimo peduncolo, pur con l’impressione o forse il dovere di ricominciare sempre tutto da capo. Solo in un banco teatrale è esclusivamente lecita la convivenza dei contrari e di chi si sfida tra rabbia e mitezza, ribellione e tirannia. E sulla loro incandescenza sfila il miracolo dell’esistere, protrarsi, fallire e riprodursi come luogo delle indecenze, ma anche della gemme e dei gusci d’insetti rivoltati. Là il dettaglio è complice o protagonista del sospendere poetico, caso della memoria e dell’oblio, contrasto tra fine e inizio per declinare la lievità in cui avvengono disastri oscuri o da cui rinasce il bisogno di dare un nome alle piante.
Non in un elenco si esaurisce la strada di Szymborska, ma piuttosto nel silenzio che genera altro silenzio di miracoli resistenti alla falce dell’inventario. E con loro sopravvive tenace l’ironia dell’epitaffio: «Qui giace come virgola antiquata l’autrice di qualche poesia», sorella del volto infranto di Cassandra che scruta la città dall’alto del futuro e resta travolta dalle sue ceneri predette. «La terra l’ha degnata dell’eterno riposo, sebbene la defunta dai gruppi letterari stesse ben distante».
Come un’eroina di Troia la poetessa che nel 1985 pubblica la raccolta Gente sul ponte, registra l’immobilità di corpi scomodi, testamenti stracciati di morti e di un tempo che passa impietoso con notizie inattese, costringendoci a raffronti tra amori felici e granelli di sabbia che non sentono il bisogno d’essere nominati e classificati dalla natura. Perché davvero i miracoli si moltiplicano dal giorno alla notte e si fanno rumore denso, differenza tra uomo e animale, occhio fisso su specchi d’acqua con la coscienza che tutto sia un prestito, una danza concessa «sulle palpebre del mondo». Solo l’anima continua a protestare «e questa è l’unica voce che manca nell’inventario».
Scrivere un curriculum (da Gente sul ponte)
Che cos’è necessario?
È necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto
il curriculum dovrebbe essere breve.
È d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.
È la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
La poetessa ai tempi del liceo, frequentato nella scuola delle Orsoline
Una vezzosa immagine della Szymborska da giovane con gli occhialini
Tre ottobre 1996, nella sua casa di Zakopane reagisce così alla notizia del Nobel
Un po’ spaventata, il 7 dicembre 1996, sull’aereo per Stoccolma dove ritirerà il premio
La poetessa nel suo appartamento, marzo 2009
La prima fotografia di Hitler (da Gente sul ponte)
E chi è questo pupo in vestina?
Ma è Adolfino, il figlio del signor Hitler!
diventerà forse un dottore in legge
o un tenore dell’Opera di Vienna?
Di chi è questa manina, di chi, e gli occhietti, il nasino?
Di chi il pancino pieno di latte, ancora non si sa:
d’un tipografo, d’un mercante, d’un prete?
Dove andranno queste buffe gambette, dove?
Al giardinetto, a scuola, in ufficio, alle nozze,
magari con la figlia del borgomastro?
Bebè, angioletto, tesoruccio, piccolo raggio,
quando veniva al mondo, un anno fa,
non mancavano segni nel cielo e sulla terra:
un sole primaverile, gerani alle finestre,
musica d’organetto nel cortile,
un fausto presagio nella carta velina rosa,
prima del parto un sogno profetico della madre:
se sogni un colombo – è una lieta novella,
se lo acchiappi – arriverà chi hai a lungo atteso.
Toc, toc, chi è, è il cuoricino di Adolfino.
Ciucciotto, pannolino, bavaglino, sonaglio,
il bambino, lodando Iddio e toccando ferro, è sano.
somiglia ai genitori, al gattino nel cesto,
ai bambini di tutti gli album di famiglia.
Be’, adesso non piangeremo mica,
il fotografo farà clic sotto la tela nera.
Atelier Klinger, Grabenstrasse, Braunau,
e Braunau è una cittadina piccola, ma dignitosa,
ditte solide, vicini dabbene,
profumo di torta e di sapone da bucato.
Non si sentono cani ululare né i passi del destino.
L’insegnante di storia allenta il colletto
e sbadiglia sui quaderni.
Le poesie sono tratte da Opere di Wisława Szymborska, edizioni Adelphi