A conti fatti, l’emergenza gas è durata due giorni. Domenica la domanda interna dell’Italia era da record, e le importazioni di carburante dalla Russia erano in diminuzione a causa delle gelate che hanno colpito i gasdotti della Gazprom. Due elementi che hanno fatto impensierire il governo e messo in attività gli amministratori di Eni ed Enel.
Lunedì eravamo in pieno allarme rosso, ed è scattato il piano di emergenza: distacchi alle aziende con contratti “interrompibili” (per i quali hanno consistenti sconti in bolletta) ed immediata protesta di Confindustria. La cartiera Burgo si è fermata, e 400 operai sono rimasti a casa. La produzione di importanti impianti, si è detto, è a rischio. La seconda parte del piano ha previsto la riaccensione delle “vecchie” centrali a olio dell’Enel.
Però martedì andava già un po’ meglio, ma non era ancora detta l’ultima parola. Mercoledì infine la rassicurazione: gli approvvigionamenti dalla Russia si sono avvicinati alla normalità, la Gazprom ci rassicurava sul futuro. La Tunisia ha “girato” all’Italia parte del ricevuto dall’Algeria, abbiamo aumentato l’importazione dal Nord Europa e i problemi di malfunzionamento dei due rigassificatori ligure e di Porto Tolle erano risolti.
Ma nonostante la bandiera sia stata ammainata, il piano è andato avanti, e sono ripartite le due centrali a olio toscane, e quella di Montalto di Castro. Si tratta di centrali ferme, in stand-by, messe in prepensionamento perché poco efficienti. La prossima nella lista dovrebbe essere Porto Tolle (Rovigo), secondo quanto definito dal Comitato per il monitoraggio e l’emergenza gas del Ministero dello Sviluppo.
È l’Eni a definire, in questi giorni, di concerto con il ministro Passera i termini dell’emergenza. I consumi hanno raggiunto un picco da record a causa del gelo e quindi le riserve (gestite sempre dall’Eni) avrebbero coperto il fabbisogno nazionale solo per dieci giorni.
Nel frattempo, viene spiegato, le centrali a olio combustibile più i distacchi sulle utenze “interrompibili” ci hanno fatto risparmiare «oltre 15 milioni di metri cubi al giorno», come ha detto il ministro Passera in un’informativa. Anche se tutti noi potremmo pagarne il conto in bolletta, tanto che lo stesso Passera ha fatto sapere che dovrà «monitorare i costi».
Tutto bene dunque? Non tanto. Innanzitutto l’operazione sulle centrali a olio combustibile «non è a costo zero»: lo ha confermato Stefano Laporta, direttore generale dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), «perchè si dovrà conteggiare cosa comporterà in termini di emissioni». Una riflessione che era serpeggiata su alcuni blog ambientalisti (www.ecoblog.it), ma che nessuna organizzazione green aveva sollevato. Le centrali a olio inquinano il doppio di quelle a gas e questo andrà ad incidere sul computo totale delle emissioni tanto da poter comportare addirittura uno sforamento dei parametri di quelle più inquinanti. E ancora una volta potremmo esserne noi a pagarne il prezzo, in bolletta.
Ma c’è anche un altro aspetto, diciamo così territoriale: saranno gli abitanti di Montalto, di Piombino e di Livorno a pagare le conseguenze della riattivazione delle centrali.
Proprio tre giorni fa la procura di Rovigo ha rinviato a giudizio amministratori dell’Enel tra cui Tatò e Paolo Scaroni (sì, proprio lo stesso Scaroni dell’Eni) per l’inquinamento causato dalla centrale Enel di Porto Tolle, quando, fino al 2004, era attiva e funzionava appunto a olio.
Dieci gli imputati del processo che inizierà a Rovigo. Secondo la Procura rodigina gli imputati, «ciascuno limitatamente ai periodi di rispettiva competenza», avrebbero omesso di collocare e far collocare impianti e apparecchi destinati a prevenire disastri ambientali e infortuni sul lavoro. In particolare, l’insorgenza o l’accentuarsi di malattie respiratorie, asma e rinite allergica e malattie cardivascolari, legate all’inalazione e ingestione di sostanze inquinanti emesse in atmosfera dal 1998 al 2004 dalla centrale di Porto Tolle.
Un punto a favore del Comitato Cittadini Liberi attivo nella zona rodigina e che si sta battendo, tra l’altro, contro la conversione a carbone della vituperata centrale. Solo che proprio in questi giorni la “vecchia signora”, così come chiamano gli impianti elettrici ormai fermi più o meno costantemente dal 2006, potrebbe essere riattivata proprio usando l’olio come combustibile. Con buona pace della salute dei cittadini e delle decisioni del tribunale.
Il settore energetico, intanto, si interroga su come evitare problemi di allerta riserve nel futuro. La risposta del presidente dell’Autorità per l’energia, Guido Bortoni, è nei rigassificatori: «Abbiamo adottato molte misure per risolvere questa crisi nel breve periodo – ha spiegato – ma questo non ci deve distogliere dall’obiettivo di medio termine: questo paese deve fare infrastrutture per il gas, in particolare rigassificatori».
E proprio mercoledì il ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha annunciato la chiusura della procedura per il terminal di Gioia Tauro, in Calabria. Il progetto, gestito dalla Lng Medgas Terminal, controllata da Sorgenia (Gruppo Cir) e Iren, prevede la realizzazione della struttura più grande d’Italia, che a regime assicurerà una copertura pari a oltre il 10% della domanda nazionale di gas. Per costruirla, però, ci vorranno tre, quattro anni. E intanto sono avvisati i comitati che in giro per l’Italia (da Savona a Benevento) si stanno battendo contro la costruzione di nuovi impianti a gas: «è intollerabile l’immobilismo amministrativo rispetto ad alcune importanti prospettive di crescita delle infrastrutture legate alla produzione di gas». Un chiaro riferimento alle difficoltà che si incontrano in Italia per l’ubicazione dei cosiddetti rigassificatori.