Il 31 gennaio su queste pagine Marco Sarti ricostruiva la vicenda del progetto presentato da Paola Goisis, deputato Lega Nord, a proposito dell’introduzione del dialetto e della storia locale nei programmi scolastici. Studiare e sapere di più non è uno svantaggio. Dipende da due cose: come si fa e soprattutto da cosa si sceglie.
Significa che se quella storia è presentata come salvaguardia dell’identità – e dunque si legge con lo stesso stato d’animo con cui si fa un pellegrinaggio –, allora quello studio non ha niente di diverso dalla edificazione di un qualsiasi centro di propaganda come ne abbiamo conosciuti in tutti i regimi politici in cui vigeva una sola verità. Se invece serve a interrogarsi sul passato, allora anziché studiare le origini della gloria, molto meglio interrogarsi sulla storia dei momenti di crisi. E dunque il problema diventa cosa si sceglie.
In un’epoca in cui tutti battono e ribattono sulla “creatività italiana” e le eccellenze come risorsa, sarebbe bene andare a studiare come quella creatività e quelle eccellenze non incontrarono il mercato. Che, al contrario, fece tranquillamente a meno di entrambe. Non perché fosse materiale o perché della creatività non se ne faceva nulla, ma perché quella creatività e quelle eccellenze le cercava in una aggiornata cultura tecnica.
È all’Italia della decadenza, di quel lungo passaggio tra prima metà Seicento e metà Settecento che dovremmo guardare per comprendere la profondità della crisi attuale e individuare come, anche allora, quella condizione non era il risultato di una malevolenza, ma l’effetto di una lunga crisi iniziata molto prima, ma non percepita perché a molti sembrava ancora di vivere al centro del mondo.
Un’Italia che allora perse tutti i primati di cui si era vantata in precedenza (quelli dell’arte, quelli della tecnica bancaria, quelli dell’arte culinaria, quelli della moda e della sartoria) e non assorbì i nuovi stili. Per esempio, il fatto che il nuovo gentleman, così come lo teorizza Locke (nei suoi Some Thoughts concerning Education,1693, per esempio) non deve avere come obiettivo la retorica, ma la libertà di pensiero. In quel momento si manifesta per intero una crisi che però ha origini lontane, e che inizia già a delinearsi alla fine del ’400.
È quello che comprende Francesco Guicciardini nel 1540 e lo enuncia in apertura della sua Storia d’Italia, un libro dimenticato, come il suo autore, spesso intravisto solo come il cantore della “doppiezza” e che invece andrebbe guardato come il misuratore dello spessore e della profondità della crisi italiana.
Francesco Guicciardini*
L’inizio del declino italiano
Io ho deliberato di scrivere delle cose accadute alla memoria nostra in Italia dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri principi medesimi, cominciarono con grandissimo movimento a perturbarla: materia, per la verità e grandezza loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti, avendo patito tanti anni Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e scelleratezze degli altri uomini essere vessati.
Dalla cognizione de’ quali casi, tanto veri e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene pubblico, prendere molti salutiferi documenti; onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’ venti, siano sottoposte le cose umane; quanto siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a’ popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano, quando, avendo solamente innanzi agli occhi o errori vani o le cupidità presenti, non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute comune, si fanno, o per prudenza o per troppa ambizione, autori di nuove turbazioni.
Ma le calamità d’Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l’origine tanti mali) cominciarono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora più liete e più felici. Perché manifesto è che, dappoi che lo imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi costumi, cominciò, già sono più di mille anni, di quella grandezza a declinare alla quale con meravigliosa virtù e fortuna era salito, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale si riposava l’anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello prima e poi furono congiunti.
Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne’ luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta a altro imperio che de’ suoi medesimi, non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata sommamente dalla magnificenza di molti prìncipi, dallo splendore di molte nobilissime e bellissime città, dalla sedia e maestà della religione, fioriva d’uomini prestantissimi nella amministrazione delle cose pubbliche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa; né priva secondo l’uso di quella età di gloria militare e ornatissima di tante doti, meritatamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva.
*Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di Silvia Seidel Menchi, Einaudi, Torino 1971, pp. 5 – 6.