Sull’asse Lisbona-Angola la storia conosce il concetto di nemesi: la madrepatria colonizzata, la colonia conquistatrice. Sono passati quattro secoli dai tempi di re Giovanni IV e dal Portogallo non si salpa più per fare incetta di schiavi africani, da spedire nelle piantagioni e nelle miniere del Sudamerica. Si vola per lasciarsi alle spalle la crisi dei debiti sovrani e la prospettiva di un default non solo economico-finanziario, ma sistemico. Sulle rive del Tago, i dati dell’Ufficio Emigrazione sono esemplari: nel 2007 solo 156 portoghesi hanno chiesto un visto per l’Angola. Nel 2010 il loro numero è salito a 23.787.
Nel 2008 il Ministero degli Esteri di Lisbona registrava 45.000 connazionali residenti a Luanda. L’anno successivo erano 92.000. Anche in Brasile le cifre non sono dissimili, con una crescita di circa 60.000 persone tra il 2009 e il 2010. Filipa Pinho, del neo-costituito Osservatorio sull’Emigrazione, non ha dubbi: «Si tratta della più grande ondata di flussi dagli anni Sessanta».
La differenza con i movimenti migratori degli ultimi decenni non è solo nella quantità, ma anche nella direzione e nei protagonisti. Non più l’Europa ricca, nordica e germanica, come ai tempi di Salazar, ma il Brasile di Lula e della sua pupilla, Dilma Rousseff, il Mozambico ricco di gas e l’ambizioso Angola, secondo produttore di petrolio del continente africano. E non più, e non solo, la manodopera priva di specializzazione, operai e contadini in cerca di una vita migliore, ma giovani qualificati, che fuggono dal mercato del lavoro stagnante del Vecchio Continente.
La “lost generation” di Lisbona non ha nulla a che vedere con quella bohemien di Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald. Un laureato su dieci lascia ogni anno il Paese. La disoccupazione giovanile sfiora il 27 per cento, un quarto della popolazione lavoratrice è formata da precari. Caratteristiche comuni al resto d’Europa, che in Portogallo assumono una forma più accentuata. Il Paese è sull’orlo del fallimento e potrebbe seguire presto le orme della Grecia, costretta a ristrutturare il proprio debito.
Negli ultimi due anni c’è stato un grande aumento del tasso di emigrazione verso il mondo anglosassone, 4,8 per cento verso l’Australia, 6,3 verso gli Stati Uniti, addirittura il 16 per cento verso il Canada. Ma le ex colonie sono la meta preferita, sia perché la lingua non costituisce una barriera all’integrazione, sia perché molte di esse crescono a ritmi superiori a quelli occidentali.
Non pochi portoghesi si sono trasferiti a Macao, la Las Vegas del mondo lusofono, ma i flussi più consistenti riguardano Brasile, Mozambico e soprattutto Angola. Qui il presidente José Eduardo Dos Santos, al potere dal 1979, guida una delle locomotive del pianeta. Il Pil, grazie soprattutto all’export di oro nero, è cresciuto del 7,8 per cento nel 2011 e il Fondo Monetario Internazionale prevede per quest’anno un ulteriore balzo in avanti del 10,5 per cento. Gli introiti petroliferi alimentano il dinamismo del settore infrastrutturale. L’Africa, però, soffre la carenza di liberi professionisti: se in Portogallo lo stipendio di un ingegnere civile non raggiunge i mille euro, a Luanda, la città più cara del pianeta, lo stesso ingegnere può arrivare a guadagnare quattro volte tanto. Così molti giovani, con in tasca una laurea, un master, a volte persino un dottorato, hanno deciso di compiere il cammino inverso rispetto a quello tradizionale.
«La dinamica tra colonia e madrepatria si è rovesciata ed è la prima volta che accade nel Continente Nero», ricorda Pedro Seabra, dell’Istituto Portoghese per le Relazioni Internazionali e la Sicurezza. In Sudamerica avviene un processo analogo. David Bernado, businessman lisboeta di stanza a San Paolo, ha aperto una pagina Facebook chiamata “Opportunità di lavoro per stranieri in Brasile”. Un successo immediato, 20.000 contatti, in gran parte portoghesi tra i 24 e i 35 anni.
D’altronde, la Coppa del Mondo di Calcio del 2014 e le Olimpiadi di Rio del 2016 offrono due straordinarie occasioni per lo sviluppo delle infrastrutture. Allo scopo di finanziare gli interventi del prossimo triennio Brasilia ha stanziato un budget di 500 miliardi di dollari, più del doppio dell’intero Pil di Lisbona. Secondo alcuni studi, la settima economia del pianeta – il Portogallo, per fare un paragone, è al 38esimo posto – avrà bisogno di più di un milione di ingegneri. I flussi migratori riguardano una vasta gamma di professioni. È stato lo stesso primo ministro di Lisbona, Pedro Passos Coelho, ad invitare gli insegnanti del suo Paese a cercare opportunità nelle ex colonie, di fronte alle difficoltà di impiego in patria.
L’inversione dei ruoli non riguarda solo il mercato del lavoro. In cambio dei fondi concessi nel maggio del 2011 per evitare il default, 78 miliardi di euro, Europa e Fmi hanno imposto a Lisbona alcune condizioni, compresa una massiccia dose di privatizzazioni, a partire dalla Edp (Energias de Portugal) e dalla Ren (Reds Energéticas Nacionais). Sulla lista dei compratori l’Angola è in prima fila. Il campione degli investimenti esteri di Luanda è la Sonangol, il gigante petrolifero nazionale, che ha già una partecipazione del 14 per cento nella più grande banca privata portoghese, la Millennium Bcp. All’inizio del 2011 ha comprato una fetta della Escom Investments, del Grupo Espirito Santo, e adesso ambisce ad entrare nella Galp, la compagnia energetica statale di Lisbona.
Se in precedenza erano le banche portoghesi a dominare il mercato di Luanda, l’ex colonia è diventata colonizzatrice anche in ambito finanziario. Isabel dos Santos non è soltanto la quarantenne figlia del presidente angolano. È la manager che ha conquistato le cronache di Forbes grazie alle sue scorribande economiche. Dal 2008 è azionista di Portugal Telecom e fa parte del cda della Edp, del Banco Português de Investimento e del Banco Espirito Santo. Nel 2010 la sua Kento Holding ha comprato il dieci per cento di Zon Multimedia, leader nel mercato della pay tv e secondo provider internet portoghese. L’angolana Bic, di cui possiede una quota, ha comprato il Banco Português de Negócios – che era stato nazionalizzato nel 2008 in seguito a problemi finanziari – per una cifra molto inferiore a quella inizialmente richiesta.
In questo momento è Luanda a fare la voce grossa.
La stessa mole dei flussi migratori portoghesi comincia a suscitare qualche reazione nell’ex colonia. L’economista Alves da Rocha, teme una concorrenza sleale: «C’è il rischio di formare una barriera all’ingresso nel mercato del lavoro per i giovani angolani, perché non tutte le imprese sono in grado di assorbire la domanda di impiego di chi esce dall’università». Già si parla di quote riservate agli autoctoni. L’emigrazione è una classica valvola di sfogo, per un Paese in crisi. Ma scaricare altrove le tensioni sociali, per una Lisbona sempre più indebolita, non sarà semplice.
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