Si scioglie l’Artico e la Cina risparmia 120 miliardi

Si scioglie l’Artico e la Cina risparmia 120 miliardi

Il primo a riuscire nellʼimpresa, dopo secoli di tentativi, fu nel 1879, lʼesploratore svedese Adolf Erik Nordenskjöld, che partì da Göteborg e sbarcò a Yokohama con la baleniera Vega. Più di un secolo dopo, per effetto del global warming, torna di moda il passaggio a Nord-Est, la mitica rotta che attraversa lo stretto di Bering, mettendo in comunicazione lʼEuropa con lʼOceano Pacifico. Se le previsioni di buona parte della comunità scientifica verranno confermate, entro il 2030 i ghiacciai artici si scioglieranno nel periodo estivo, creando un percorso di navigazione concorrenziale rispetto a quello di Suez. Già adesso grandi e costose navi rompighiaccio, generalmente a propulsione nucleare, si muovono lungo la Northern Sea Route: nellʼagosto 2011, per fare un esempio, la russa Vladimir Tikhonov è partita da Murmansk per raggiungere la Thailandia, portando con un sé un enorme carico di gas naturale liquefatto. Un vascello della danese Nordic Bulk Carriers ha compiuto un tragitto analogo, dalla stessa Murmansk fino alla Cina, in 23 giorni: se avesse scelto di passare per Suez, avrebbe impiegato un mese e mezzo.

Lo scioglimento dei ghiacciai per una parte dellʼanno renderà la rotta ancora più appetibile per le grandi flotte commerciali, in primo luogo quella cinese. A Pechino hanno fatto alcuni calcoli. Il passaggio a nord-est permette di accorciare di circa 10.000 chilometri la strada per lʼEuropa. Ed anche quello a nord-ovest, attraverso il Canada Artico, consente un taglio di 7.000 chilometri in direzione dellʼAtlantico americano. In sostanza, le rotte artiche portano a una dimezzamento della distanza e dei tempi di navigazione, con un significativo risparmio di costi, che vanno dal carburante agli stipendi per i marinai. Il prof. Bin Yang, della Shanghai Maritime University, ha calcolato che farebbero risparmiare al Dragone ogni anno una cifra che va dai 60 ai 120 miliardi di dollari.

Se a ciò si aggiungono i rischi connessi al percorso di Suez, per via dei pirati che scorrazzano nel golfo di Aden, non si fatica a capire perché la Cina e lʼIndia abbiano chiesto di diventare osservatori permanenti del Consiglio Artico, il forum di otto Paesi – Stati Uniti, Russia, Canada, Norvegia, Danimarca, Svezia, Islanda e Finlandia – creato per gestire lʼintera area. Attualmente sia Pechino che Nuova Delhi hanno stazioni di ricerca allʼinterno delle isole Svalbard, nella Norvegia settentrionale. Ma entrambe vogliono contare di più. LʼAmmiraglio cinese Yin Zhuo ha espresso un concetto piuttosto chiaro: «LʼArtico appartiene a tutta lʼumanità, per cui nessuna nazione ha la sovranità sopra di esso». Molte potenze, la Russia in testa, reclamano non solo le zone economiche esclusive previste dalle leggi internazionali -fino a duecento miglia- ma anche lo sfruttamento della cosiddetta piattaforma continentale, il territorio considerato il prolungamento naturale di quello nazionale.

La partita resta aperta e il Consiglio è il luogo naturale del confronto. Per il Dragone il controllo delle rotte marittime è essenziale. Il duello con gli Stati Uniti si è fatto particolarmente acceso in Asia, nello Stretto di Malacca, tra lʼOceano Indiano e il Mar Cinese meridionale. Questʼultimo, che recentemente ha acquisito grande rilevanza per le riserve di petrolio e gas naturale, è in primo luogo un hub fondamentale per il commercio. Non a caso, Washington ha offerto il proprio appoggio ai Paesi dellʼAsean -Brunei, Malesia, Vietnam e Filippine- impegnati in un contenzioso territoriale con Pechino.

La Northern Sea Route è altrettanto strategica. La testa di ponte cinese nellʼArtico potrebbe essere la Danimarca. Lo scorso ottobre lʼambasciatore danese a Pechino ha fatto intendere il punto di vista del suo Paese: «La Cina ha interessi legittimi e naturali, economici e scientifici, nel Circolo Polare». Copenaghen gestisce la politica estera della Groenlandia, terra ricca di ghiacci, ma soprattutto delle cosiddette terre rare, un gruppo di diciassette minerali con numerose applicazioni tecnologiche, dalle fibre ottiche ai superconduttori. I legami commerciali tra i due Paesi sono cresciuti in maniera esponenziale. Pechino compra farmaci, macchinari e riempie i container del colosso danese dello shipping, la Maersk.

In Groenlandia il vantaggio è reciproco, perché le ricerche industriali sono piuttosto onerose e gli investimenti cinesi necessari. In generale, tutto il sottosuolo artico è ricco di risorse energetiche – petrolio, gas, carbone – e preziosi minerali, come zinco e argento. Ma in questo Great Game la ricerca di strade navigabili non è un fattore meno importante. Il colosso asiatico ha solo una nave rompighiaccio, lo Xuelong, ma una struttura di 8.000 tonnellate sarà operativa nel 2014. Anche gli Stati Uniti hanno un solo icebreaker, lo USCGC Healy -ben lontano dai 25 scafi dei russi- ma anche a Washington è in programma un aumento della flotta.

Lo spaccaghiacci russo Renda attraversa lo stretto di Bering

Già oggi le commodities energetiche di Mosca attraversano il passaggio a nord-est in direzione di Pechino. Presto sorte analoga toccherà al gas liquefatto canadese. Con lo scioglimento estivo dei ghiacciai artici, la rotta farà ancora più gola, anche se resterà utilizzabile agevolmente solo per una parte dellʼanno. Non cʼè solo il passaggio a nord-est ad attirare lʼattenzione del politburo. La politica estera cinese è coerente con lo status di prima potenza commerciale del pianeta. Anche in America Latina, dove il Canale di Panama è troppo stretto per la stazza di alcuni mercantili, Pechino lavora da tempo a unʼalternativa. Nei mesi scorsi il presidente colombiano Juan Manuel Santos ha fatto un annuncio importante dalle colonne del Financial Times: «Cina e Colombia stanno lavorando alla costruzione di una ferrovia che collegherà Atlantico e Pacifico».

Duecentoventi chilometri di binari aggireranno lʼormai vetusto Canale, inaugurato nel 1914, portando dal porto di Buenaventura, sullʼoceano della pace, a una nuova città che verrà costruita sullʼAtlantico, a sud di Cartagena. Il progetto riscriverà la geografia commerciale dellʼarea, da cui passano attualmente 13-14 mila navi, il cinque per cento dei traffici mondiali. Il costo complessivo dellʼopera, finanziato dalla Chinese Development Bank, dovrebbe aggirarsi intorno ai 7,6 miliardi di dollari. Il dry canal mira ad accrescere ulteriormente la penetrazione commerciale del Dragone e a favorire le importazioni di materie prime, come il carbone della stessa Colombia, per la quale Pechino rappresenta oggi il secondo partner commerciale, dopo gli Stati Uniti. La sfida a Washington, che solo recentemente ha ratificato il trattato di libero scambio con Bogotà, è partita anche in Sudamerica, tradizionale feudo a stelle e strisce.

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