Sindacati, battetevi per i salari e non per il posto fisso

Sindacati, battetevi per i salari e non per il posto fisso

Su ogni dollaro di guadagno realizzato negli Usa nel terzo trimestre, solo il 44% è andato negli stipendi dei dipendenti. Il dato più basso da quando, nel 1947, il governo americano ha iniziato a calcolare questo parametro. Partiamo da questo numero citato da Robert Reich, ex segretario al lavoro di Clinton e autore di un bellissimo saggio sul rapporto fra mercato e democrazia (“Supercapitalism: The Transformation of Business, Democracy, and Everyday Life”), per chiarire da subito che la compressione salariale non è una specificità solo italiana. Come non è solo una nostra peculiarità che i lavoratori riescano a godere sempre meno della crescita economica. Anni fa l’Economist pubblicò un grafico dove si vedeva che la crescita della rendita negli ultimi trent’anni nei principali paesi occidentali, era esponenziale mentre quella dei redditi era rimasta piatta. Se c’è qualcuno che guadagna senza lavorare, è l’adagio in questi casi, poi c’è qualcuno che lavora senza guadagnare. 

Per noi italiani, oltre alla moderazione salariale che ha colpito un po’ tutti soprattutto negli ultimi vent’anni, ci sono da aggiungere i vent’anni di crescita anemica che ci hanno dato un senso di impoverimento così forte. Così forte che, quando qualcuno ha letto malamente i dati Eurostat facendoci pensare di guadagnare perfino meno dei greci, nessuno ha ritenuto la notizia così inverosimile da andare a fare una verifica. C’è voluta l’Istat, il giorno dopo, a dirci che non siamo messi così male, o meglio, non così male come i greci. Come tutte le bugie, per essere creduta deve essere verosimile. E quella notizia lo era, eccome. 

Per questo l’idea di cui stanno discutendo in questi giorni le parti sociali di scambiare una maggiore flessibilità con salari più alti sembra essere la strada migliore. Il dato Istat che mostra come nelle grandi aziende (oltre 500 dipendenti) le retribuzioni lorde nel 2011 sono aumentate dello 0,7% rispetto ad un’inflazione del 2,8% è uno di quello che parlano chiaro. Ed è un numero ripetibile per molti altri settori. Tutte cose che i sindacati sanno benissimo. Nel 2007 il centro studi della Cgil (Ires) nel presentare un rapporto tra salari e produttività evidenziava che tra il 1998 e il 2006 le retribuzioni lorde erano aumentate del 18,4% in Inghilterra, del 16% in Francia e del 5% in Germania. Da noi si fermavano al 2,6%.

Ora lasciamo al confronto fra le parti la quadratura del cerchio, se debba essere lo Stato a ridurre il cuneo fiscale (come? con quali risorse?) o le aziende a dovere alzare i contributi (nel mezzo di una recessione?) consapevoli che la strada è complicata, la coperta corta, lo spazio per muoversi ridotto. Però il modo, il principio, non può che essere che questo. Certo, sulla flessibilità bisogna intendersi, bisogna arrivare ad una definzione il più condivisibile posibile di quale sia quella buona e quale quella cattiva. Ma forme di flessibilità ci devono essere, le imprese ne hanno bisogno. Così come i lavoratori e l’economia hanno bisogno di un salario che non li condanni ad essere lumpenproletariat, il proletariato privo di coscienza e rappresentanza sindacale descritto da Marx.

Insomma quando Mario Draghi certifica la morte del nostro sistema di welfare  e se la prende con chi ha più a cuore la difesa del posto di lavoro che quella dei lavoratori, dice qualcosa che sappiamo da anni ma di cui i nostri sindacati, fanno spesso molta, troppa fatica a tenere conto. Eppure le evidenze sono nette e le due principali criticità del nostro mondo del lavoro (i salari bassi e il dualismo contrattuale) sono una vera e propria emergenza su cui si misureranno la vera efficacia del governo e la capacità dei sindacati, soprattutto della Cgil, di qualificarsi come riformisti. Con le riforme del lavoro già introdotte (il pacchetto Treu del 1996 e la legge Biagi del 2003) la flessibilità ha già avuto un forte aumento, (come mostra il grafico qua sotto, relativo all’Italia, elaborato da Quattrogatti.info su dati Ocse). Ma intervenendo solo sui nuovi assunti e quindi sui giovani a cui abbiamo fatto pagare l’incapacità di politica, imprenditori e sindacati di riformare il nostro sistema produttivo. 

Allora, visto che il posto fisso a vita, lo sappiamo, appartiene al passato, ridistribuiamo questa flessibilità in maniera che non colpisca solo i nuovi arrivati (punto dolente per i sindacati, basti pensare che, per restare alla Cgil, gli iscritti sono in gran parte lavoratori a tempo indeterminato cui mancano pochi anni per arrivare alla pensione e pensionati), ma questa volta negoziandola in cambio di maggiori salari e non di tutele invariate per i propri iscritti. Se è vero che la riforma delle pensioni introdotta da Monti può produrre a regime risparmi nell’ordine dei 20 miliardi annui, come ipotizzato ad esempio dall’ex ministro del lavoro Cesare Damiano, magari qualche soldo lo si può allocare a questo fine. Se i sindacati sapranno accettare la sfida forse questo potrebbe aiutare i consumi, e quindi l’economia, e potremo magari essere d’accordo con Reich secondo il quale per far ripartire i salari «servono sindacati più forti, sia nell’industria che nei servizi» consapevoli che ad esempio in Germania sono forti, ma senza essere un ostacolo alla crescita del paese. Se invece mancheranno anche questa sfida capiremo ancora meglio quel dato di un saggio di Luca Ricolfi di qualche anno fa dove si mostrava come la maggior parte dei precari votasse a destra. Ma, soprattutto, avremo fatto un’ulteriore danno ai venti-trentenni che stanno già pagando profumatamente il peso della nostra gerontocrazia e a tutti i lavoratori che stanno già pagando il prezzo di una classe dirigente che fin qui non è stata all’altezza della sfida.  

Twitter: jacopobarigazzi

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