Un anno dopo Tahrir, l’Egitto è ancora tutto da rifare

Un anno dopo Tahrir, l’Egitto è ancora tutto da rifare

IL CAIRO – Dal 25 gennaio scorso, piazza Tharir al Cairo è tornata a essere occupata dai “rivoluzionari”. Camminando per la grande piazza e chiacchierando con le persone si coglie un sentimento misto di celebrazione e aspettativa. Per un verso la commemorazione dellʼanniversario della rivoluzione del 27 gennaio 2011 e dei suoi martiri, per lʼaltro la convinzione che gli obiettivi della rivoluzione non siano ancora stati tutti conseguiti. Il corso che ha preso nei mesi scorsi la transizione alla democrazia in Egitto è sotto accusa da parte della piazza. Molte aspettative sono rimaste eluse dalla giunta militare che prese il posto dellʼodiato Mubarak un anno fa. Lʼesercito, dopo essere stato acclamato per aver accolto e sostenuto le richieste della piazza per un cambio di regime, è oggi apertamente contestato e la sua immagine pubblica va deteriorandosi rapidamente.

Le proteste che dal Cairo si sono diffuse a tutto il Paese (Alessandria, Tanta, Damietta, Port Said, Ismailia, Assiut, Qena, Asswan) chiedono che la giunta militare si faccia da parte e devolva il potere a un governo civile, espressione del parlamento liberamente eletto nello scorso dicembre. Le contraddizioni però non mancano se si pensa che il Freedom and Justice Party – il partito dei Fratelli musulmani, che è risultato la prima forza politica del Paese con circa il 47% – si è detto dʼaccordo (almeno ufficialmente) con i piani della giunta militare per una più lunga transizione che dovrebbe portare a un governo e un presidente civili entro lʼanno, ma dopo aver scritto la nuova costituzione sotto la vigilanza dei generali.

La verità è che ancora oggi a Tharir si può chiaramente osservare il carattere popolare, di protesta sociale e a-partitico per il quale si è distinta la rivoluzione egiziana (come quella tunisina). I partiti, e soprattutto quello dei Fratelli, hanno montato i loro palchi allʼinterno della piazza dove si avvicendano gli oratori ad arringare la folla, che continua però ad avere una dialettica discorsiva a se stante. I militari invece sono letteralmente estromessi dalla piazza e si limitano a sorvegliarla, circondandola da lontano. Con un colpo dʼocchio è possibile avere la chiara percezione di come la folla nella piazza si distingua non solo dai militari che stanno fuori, ma anche dai partiti sui palchi. Quellʼanarchia ordinata che chiunque abbia passeggiato per le strade del Cairo non può aver fatto a meno di cogliere, forse scambiandola per semplice disordine e confusione, ha trovato il meglio della sua espressione attraverso la rivoluzione.

Piazza Tharir rimane prima di tutto uno spazio pubblico di confronto e quasi di immedesimazione fisicacon la rivoluzione, dove la gente comune e spesso gli studenti si recano per confrontarsi con i partiti, ma prima di tutto tra loro, in unʼatmosfera che alterna momenti di protesta anche feroce ad altri che mi ricordano le feste di paese nella provincia italiana. Militari, fratelli, salafiti, partiti laici stanno tutti tentando di appropriarsi di una rivoluzione che fatica ancora a esprimere una leadership chiara e consolidata.

Rimane lo stacco tra i programmi, in molti casi nemmeno troppo articolati, dei partiti e le richieste delle masse che intendono la democrazia prima ancora che come un esercizio di sovranità politica come la porta di accesso a una vita migliore, dove sostanzialmente le sperequazioni e stratificazioni sociali siano inferiori e più sopportabili.

In piazza si parla ancora, e prima di tutto, di corruzione versus diritto di tutti i lavoratori di godere dei frutti della loro fatica. La critica principale si indirizza al posto pubblico e a chi lo occupa che viene guardato come una sorta di simbolo del sistema clientelare del passato regime. Si vorrebbe non solo mettere un tetto agli stipendi pubblici, ma modularli attraverso una scala proporzionale che eviti differenze salariali (e di conseguenza sociali) troppo grandi.

Il problema è che al corso rivoluzionario si è affiancata una crescente crisi economica che ha duramente colpito i principali settori produttivi del paese e in particolar modo il turismo. Gli operai nelle fabbriche e nei trasporti scioperano a singhiozzo chiedendo aumenti salariali che vengono intesi come i dividenti della rivoluzione ai quali non si è più disposti a rinunciare. Le leggi del mercato non fanno però sconti, specie se i partiti non hanno una chiara politica economica: esiste il rischio che si inneschi un circolo vizioso che attraverso la crisi economica finisca per deprimere il corso della transizione democratica.
 

*Africanista, Università di Pavia