(Michigan) – Nell’autunno 2008, uno dei periodi più cupi della crisi dell’auto americana, Mitt Romney scrisse un articolo tranchant sul New York Times dal titolo: «Lasciamo che Detroit vada in bancarotta». La sua ricetta era chiara, abbandonare le grandi aziende automobilistiche Usa al loro destino: il fallimento.
Dalle loro ceneri, diceva, ne sarebbero sorte di più virtuose. «Se General Motors, Ford e Chrysler ottengono il piano di salvataggio finanziario che i loro dirigenti hanno chiesto ieri», ammoniva Romney il 18 novembre 2008 sul Times, «possiamo anche dire addio all’industria americana dell’auto. Non si estinguerà nello spazio di un mattino, ma la sua scomparsa sarà praticamente certa. Senza il salvataggio Detroit dovrà reinventarsi. Con il salvataggio le case automobilistiche vedranno inesorabilmente restringersi le loro quote di mercato, manterranno il personale in eccesso e non taglieranno i costi esosi legati alle pensioni, resteranno impelagati nell’atrofia tecnologica e il risultato finale sarà inevitabilmente l’emorragia inarrestabile di posti di lavoro. Detroit ha bisogno di una svolta, non di un assegno».
Le cose sono andate diversamente. Il presidente Obama varò il piano di salvataggio con un sostanzioso pacchetto di prestiti e oggi l’industria dell’auto Usa non solo è tornata in carreggiata, ma registra addirittura guadagni record. Basti pensare che GM sta per distribuire 7mila dollari ai suoi operai in premi di produzione e le vendite di Chrysler negli Stati Uniti nel mese di gennaio erano il 44% in piu’ dell’anno precedente. Il fatturato di GM e Ford è cresciuto rispettivamente del 7% e del 13% nell’ultimo trimestre, ed entrambe le aziende quest’anno saranno ampiamente in attivo. «Una mattina nell’autunno del 2008 il nostro capo ci chiamò a raccolta e ci disse che avremmo chiuso e mai più riaperto», ricorda Eric Watters, un operaio di GM. E il collega Denny Ilisevich aggiunge: «Nel 2009, quando eravamo in cassa integrazione, ci concedevano di tornare in fabbrica per una settimana e poi eravamo di nuovo a casa; è stato un periodo tremendo».
«Ma ora ci siamo ripresi alla grande», dice la caposquadra Mecia Reed, «alla faccia dei gufi!». A due giorni dalle elezioni primarie repubblicane in Michigan quell’articolo di Romney dalla tesi poco illuminata è più che mai vivo nella memoria degli operai e dei sindacalisti locali: «Il presidente Obama ha dimostrato di volerci davvero aiutare», dice Watters, l’operaio di GM. «Mitt Romney invece ha scritto che preferirebbe morissimo, e noi non ce lo scordiamo». Particolarmente allergici a Romney sono i quadri del sindacato United Auto Workers (UAW) e i suoi tesserati. E non perdono occasione per ricordarglielo. Come ieri, quando Romney ha fatto una comparsata sugli spalti della piu’ importante gara della formula Nascar a Daytona Beach in Florida ed è stato accolto da uno striscione del sindacato UAW dal messaggio canzonatorio: “Lasciamo che Detroit vada in bancarotta”, “Let Detroit Go Bankrupt”, il titolo del suo ormai famoso intervento sul Times.
Romney in questo doppio appuntamento elettorale del 28 febbraio cammina sull’asse d’equilibrio. Non dovrebbe avere problemi in Arizona, ma al momento non è per nulla certa la sua affermazione in Michigan. Rick Santorum, il candidato conservatore duro e puro, vincitore a sorpresa delle ultime consultazioni in Colorado, Minnesota e Missouri è in vantaggio di tre punti, secondo i piu’ recenti sondaggi.
Il solo fatto che Romney incontri così tanta difficoltà a battere Santorum in Michigan, lo Stato in cui è nato e cresciuto, e in cui suo padre, George, top manager dell’industria auto è stato governatore, la dice lunga su quanto fiacca sia la sua candidatura. Per Romney anche un’affermazione di misura qui in Michigan sarebbe negativa, ma un suo passo falso potrebbe davvero rivoluzionare la corsa. L’ex governatore del Massachusetts diventerebbe tanto impresentabile da non escludere l’avvento di un salvatore del partito repubblicano investito in extremis alla convention di agosto a Tampa in Florida. Per esempio una rockstar repubblicana come il pingue governatore del New Jersey Chris Christie, quello dell’Indiana Mitch Daniels o l’ex governatore della Florida Jeb Bush, fratello minore dell’ex presidente americano George W. Bush. I papabili, al momento, escludono questa opzione categoricamente (Christie tra l’altro si sta spendendo per sostenere Romney).
Ma questa eventualità, quella di una “brokered convention”, una convention per così dire “mediata”, perché non si impone alcun candidato solido con le primarie, sarebbe una beffa per Romney e una situazione anomala per il partito repubblicano. L’ultima volta è successo negli anni ’70 quando Gerald Ford venne scelto a scapito di Ronald Reagan. Ma se in Michigan vince Santorum potrebbe non essere più fantascienza.