Banche, moneta, potere‘500, Emilia: dove avevano capito l’euro più della Merkel

‘500, Emilia: dove avevano capito l’euro più della Merkel

Il 2 febbraio 1502 Lucrezia Borgia – figlia di Papa Alessando VI e femme fatale del Rinascimento – da pochi mesi sposata in terze nozze con Alfonso D’Este, entrò con il suo corteo nuziale a Ferrara sorprendendo ed ammaliando l’intera città per la sua bellezza e per la raffinatezza e lo sfarzo del suo abito: “vestita di una galante camora di damasco carmesino, tessuta di liste di brochato d’oro rizo e di sopra una sbernia di brochato d’oro sopra brochato richisimo, fodrata di armelini suso cavalo groso liardo cuberto di veluto carmensino ricamato a foglie di rovero”. Lucrezia rappresentava l’eleganza e il gusto delle Corti italiane nel Rinascimento: amando il lusso e la ricercatezza nutriva ovviamente un grande interesse per la produzione di oggetti di lusso. Con una lettera del 2 agosto del 1592 al Collegio degli Anziani di Reggio di Lombardia (l’odierna Reggio Emilia) invitava la cittadinanza ad accogliere mastro Antonio da Zenua, cittadino ferrarese e depositario dei segreti e delle tecniche “del mestiero della seda”. Il Consiglio reggiano accolse subito la proposta e mise il mastro nelle migliori condizioni possibili per operare ed iniziare a produrre tessuti. Negli anni seguenti a Reggio trovarono rifugio ed accoglienza alcuni abili artigiani lucchesi, in fuga dalla lotte intestine della loro città e l’arte serica si diffuse pienamente. Reggio colse al volo l’occasione: i capitali provenienti dall’agricoltura e dai commerci furono investiti nella manifattura della seta. L’intera città si trasformò in funzione della produzione della seta e dei tessuti pregiati, aumentarono i canali per le acque e i mulini: sfruttando l’energia idraulica si sosteneva l’attività dei telai. Sorsero numerosi “opifici” tanto che già nella prima metà del Cinquecento vi erano oltre 500 telai impiegati nella manifattura della seta. L’intero sistema idraulico della città reggiana, con chiuse, canali, navigli era strutturato in funzione della produzione dei tessuti.

La manifattura tessile era già diffusa da secoli nei Comuni italiani, si pensi allo straordinario sviluppo di Bologna con il suo complesso sistema di canali, chiuse e mulini. E si pensi alla potenza e alla ricchezza dell’”Arte della Lana” a Firenze. Reggio nel Cinquecento fa un scelta particolare: si specializza sulla produzione della seta e punta sull’alta qualità. Si producevano tessuti pregiati come broccati, damaschi, velluti bianchi, sete con fili d’oro, sete “intessute con stelle d’argento”. Il connubio investimenti, specializzazione tecnica e modificazione urbana determinò un enorme salto di produttività. Ma i reggiani non si limitarono a produrre tessuti di seta: li commerciavano e li esportavano. Emerse una classe di mercanti-imprenditori che si riuniva nella corporazione dell’Arte della Seta, l’“Ars Siricea Regij” che diviene presto potente e ricchissima. A Reggio si costruirono ovunque nuovi palazzi e si ampliarono le vecchie dimore ed arrivarono artisti di grande fama. Questo straordinario accumulo di ricchezza, sul finire del Cinquecento, contribuirà in maniera determinante alla costruzione della bellissima Basilica della Madonna della Ghiara e a ri-plasmare l’intero volto della città.
In questo clima di grande vigore economico e di forte crescita si formò Gasparo Scaruffi, banchiere proveniente da una ricca famiglia di mercanti. Sin da giovane fu avviato ai commerci e all’”uso dei denari”, a 25 anni è attestata la sua presenza presso un banco a Piacenza, una delle principali piazze finanziarie d’Europa. Nel 1547 il Consiglio Comunale lo nominò saggiatore nella Zecca di Reggio, responsabile delle monete di prova coniate in loco. Nel 1550 fu inviato dal Consiglio di Città come ambasciatore nel Ducato di Mantova in qualità di esperto di monete per dirimere una diatriba relativa al bando pubblico emesso dal cardinale Ercole Gonzaga che arbitrariamente riduceva il valore della monete reggiane, mentre il valore dell’oro in esse contenuto era maggiore di quello nominale. Per lo stesso motivo è inviato a Parma, presso il governatore Ottavio Ferro. Nel 1552 Gasparo prese la conduzione della Zecca di Reggio e sotto la sua gestione furono battuti “scudi d’oro e bianchi” e si introdussero varie innovazioni. Nel 1560 viene nominato “spenditore” cioè tesoriere del Comune.

Ma nel 1566 il suo Banco ebbe una crisi di liquidità che rischiava di tramutarsi in una irreversibile crisi di solvibilità, Scaruffi fu costretto a sospendere i pagamenti e fu tradotto nelle carceri di Ferrara; la stima del possibile crollo era di 13.838 scudi d’oro. Ma caduta e risalita erano vicende comuni nella vita dei mercanti-banchieri del Rinascimento: Gasparo riuscì a riprendersi e con un attenta politica di riordino delle attività, vendita di cespiti e dilazione dei pagamenti ritornò pienamente solvibile, ripagò i creditori e si rimise in affari e nella mercatura. Durante tutte queste esperienze aveva maturato una straordinaria conoscenza nel campo delle monete, sulla confusione relativa al loro effettivo valore, sul loro utilizzo nel pagamento dei commerci e aveva sperimentato sulla propria pelle la pericolosità delle improvvise crisi di liquidità che colpivano i “banchi” nel Cinquecento. Nel 1568 avanzò al Duca di Mantova, al Re di Spagna che controllava il Ducato di Milano e ad Ottavio Farnese che regnava a Parma una proposta di profonda riforma fiscale. Le sue tesi non furono accolte. Per anni fu sospettato di alchimia, in fondo riformare il “governo delle monete” era una sfida enorme, che sapeva quasi di alchimia.

Da queste esperienze e vicissitudini scaturì un suo originalissimo trattato. Gasparo Scaruffi nel 1582, presso l’editore Hercoliano Bartoli, pubblicò l’Alitinonfo (termine che deriva dal greco e significa “vero lume”): “per fare ragione, et concordanza d’oro, e d’argento
che servirà in universale” proponendo una radicale riforma monetaria e l’adozione di una moneta unica, mondiale. Lo scopo è triplice: da un lato evitare gli infiniti abusi del tosare, et guastare monete, dall’altro “regolare ogni sorte di pagamenti” ed infine “ridurre anco tutto il mondo ad una sola moneta”, la lira imperiale con una sola Zecca globale.
Scaruffi, come i mercanti del nostro grande Rinascimento, non era un utopista, proveniva da una famiglia dedita ai commerci ed alla manifattura. Gli Scaruffi erano “mercatores et campsores”, nelle botteghe reggiane possedevano 30 telai che lavoravano seta e velluto, avevano banchi a Parma, Firenze, Roma, Genova, nelle principali piazze europee come a Londra, nelle Fiandre, a Lione, tramite la Repubblica di Venezia commerciavano con l’Oriente. La necessità di una moneta unica era una chiara esigenza pratica, che serviva per agevolare i commerci, superare l’anarchia monetaria: nel Cinquecento per un mercante reggiano bastava superare l’Enza o il Po per trovarsi monete differenti, con pesi diversi e con una diversa componente di argento ed oro. Nei vari Ducati e Signorie erano, inoltre, in vigore più monete: ogni Principe, ogni Duca voleva vedere il suo volto inciso sulle monete del regno. Certo nel Cinquecento la proposta di Scaruffi era veramente coraggiosa: ancora tre secoli dopo, nei territori che formarono nel 1861 il Regno d’Italia circolavano ben 236 diverse monete metalliche. Si può ben immaginare quante ne circolassero nell’Europa nel Cinquecento.
Ma il problema non era solo nei rapporti di cambio e nell’elevatissimo numero di monete ma anche della qualità intrinseca delle stesse, nella differenza tra valore nominale e quantità di metallo prezioso. Non solo gli Stati non pagavano i creditori e spesso dichiaravano default (si pensi ai mancati pagamenti dei regnanti inglesi nei confronti dei banchieri toscani) ma spesso si adoperavano in vere e proprie truffe emettendo monete di pessima qualità e con un valore di oro o di argento inferiore al dichiarato. I Re di Aragona furono famosi per essersi specializzati nell’emettere “moneta falsa” e addirittura attirarono la scomunica papale. Né fu da meno nel Cinquecento il grande Carlo V. Ma in generale ogni singolo Ducato veniva prima o poi tentato dal ridurre il valore intrinseco della moneta, attraverso emissioni difettose o interventi successivi sulle monete in circolazioni (bastava che fossero “grattate”). Per le “monete guaste” si combattevano guerre e si bloccavano i commerci.

A queste gravi problematiche si aggiungeva l’incontrollabile ascesa dei prezzi, causata dall’affluire in Europa di enormi quantità di argento dalle colonie spagnole in America: crescita dei prezzi che già nella seconda metà del Cinquecento faceva sentire i suoi effetti disastrosi .Contro queste piaghe, contro queste incertezze, contro il “morbus nummaricus” Gasparo Scaruffi propose la Sua riforma monetaria: non era un letterato chiuso nella torre d’avorio, conosceva direttamente i problemi monetari ed era conscio dei rapporti di forza nello scacchiere europeo con l’affermarsi del predominio spagnolo. Ma era consapevole che di fronte all’impennata dei prezzi e per agevolare i commerci occorreva un grande salto in avanti, una cessione della sovranità monetaria dei vari Stati per ottenere – attraverso un compromesso evolutivo – un grande risultato finale: una moneta unica.
La visione dei “mercatores” italiani andava ben oltre i litigi e gli intrighi di corte dei ducati italiani, o le grandi e continue guerre tra i Regni europei: nel loro dna vi erano viaggi e competizione, il loro sistema valoriale era fondato sulla capacità e sulla propria virtus che vince l’avverso fato. E’ nei “mercatores” italiani che nasce l’esigenza del “governo della moneta”. Accanto a quella di Scaruffi si consideri anche l’opera del mercante toscano Bernardo Davanzati, con le sue Lezioni delle Monete del 1588. I “mercatores” italiani non erano chiusi nel mercato domestico, esportavano e commerciavano ovunque dal cuore dell’Europa all’Oriente: per loro la certezza dei cambi, le regole nel sistema dei pagamenti, la stabilità dei prezzi erano fondamentali. Avevano bisogno di un grande “mercato unico comune”.
Quindi l’Unione Monetaria Europea, realizzata molti secoli dopo il periodo di Scaruffi, è stata un’immensa conquista. Ma da un paio d’anni ha dimostrato tutte le sue debolezze e soprattutto ha dimostrato di essere un’opera incompiuta. Nell’Europa degli ultimi mesi sembra svanito lo spirito dei padri fondatori – Adenauer, De Gasperi, Schuman, Monnet, Spinelli – né si intravede l’ombra del coraggio di Mitterand e di Kohl.

Ma occorre non sacrificare la costruzione europea alla tirannia della “veduta corta”: come sottolineava Tommaso Padoa Schioppa proprio in questa incapacità di andare oltre il calcolo di breve periodo e di guardare il futuro sta la radice più profonda della crisi in atto.
La Merkel, oggi concentrata solo sulle politiche di “austerity”, probabilmente non avrà letto Gasparo Scaruffi né conoscerà la sua “visione lunga” ma non dimentichi i grandi vantaggi che l’industria tedesca e l’intero sistema del Made in Germany hanno saputo cogliere dal mercato unico europeo. Non dimentichi che mercato comune e moneta unica sono intrinsecamente collegati e che il “morbus nummaricus” è nemico dei commerci e della crescita economica. 

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