Il 9 marzo del 1776 veniva pubblicata “La ricchezza delle nazioni”, bibbia dei moderni studi economici e testo fondamentale del pensiero liberale. Vi proponiamo una lettura ragionata di quel libro, diventato, nel tempo, una specie di compendio di slogan del liberismo da bar. Mentre invece un suo studio attento aiuta a capire che lo Stato e le regole, per Smith, erano molto importanti. E lo erano, perfino, le norme a tutela degli operai.
Buon compleanno capitalismo. 236 anni fa, il 9 marzo 1776 venne pubblicata la prima edizione de “The Wealth of Nations” di Adam Smith. Vorrei dunque proporre un’umile rivisitazione dell’opera provando a sottolineare l’importanza che aveva per Smith, sia il ruolo dello Stato sia quello della collettività, questioni che comunemente vengono escluse o dimenticate. Considerando la maestosità dell’opera verranno approfonditi solo pochi passaggi. Non so se sia accurato individuare la nascita del capitalismo in concomitanza con la pubblicazione del secondo volume di Adam Smith, ma è accezione comune individuare nella “Ricchezza delle Nazioni” la nascita dell’economia classica e quindi, in parte, del pensiero liberale. Infatti per molti autori neoclassici, il concetto della “mano invisibile” è stato il precursore per lo sviluppo della “teoria dell’equilibrio generale” introdotta da Léon Walras nel 1874.
Nato in concomitanza con la Prima rivoluzione industriale, Adam Smith (1723-1790), può essere considerato il filosofo che pose le basi per lo sviluppo della moderna teoria economica. Definire Adam Smith un puro economista può risultare erroneo per due motivi: da un lato, nei suoi libri non sono presenti formule; dall’altro di formazione Smith era filosofo morale. Docente di logica all’Università di Glasgow, nel 1759 venne pubblicata la “Teoria dei Sentimenti morali” in cui è descritta la morale della simpatia. Secondo questa teoria, l’uomo è mosso nelle sue azioni dal desiderio di ottenere l’approvazione e quindi la simpatia dei sui simili, o meglio l’approvazione di quello “spettatore imparziale” che rappresenta, appunto, la collettività. Dopo un viaggio in Francia tra il 1764 e il 1766, dove andò in visita ai suoi amici Hume (sotto vi propongo un interessante scambio epistolare tra i due) e F. Quesnay, dopo quasi 17 anni dalla prima opera, pubblicò l’opera pilastro delle scienze economico-sociali: La Ricchezza delle Nazioni.
Quest’opera si articola in cinque volumi nei quali viene analizzata l’economia nel suo complesso, grazie all’unione delle varie componenti del puzzle economico. La ricchezza di una nazione deriva da due fattori: il numero dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione (individuati nella borghesia e distinti dai lavoratori improduttivi caratteristici del sistema feudale) e la produttività di ogni lavoratore. Nel primo volume “Delle cause del progresso nelle capacità produttive del lavoro, e dell’ordine secondo cui il prodotto viene naturalmente a distribuirsi tra i diversi ceti della popolazione” vengono indagate le cause sia del miglioramento e dello sviluppo economico (dovute alla divisione del lavoro) sia della distribuzione naturale del reddito. Per esprimere l’utilità marginale derivante dalla divisione del lavoro, raggiunta grazie alle prime forme di meccanizzazione del lavoro stesso, Smith studia la famosa fabbrica di spilli, notando come:
«Si può dunque considerare che ogni persona, facendo la decima parte di quarantottomila, fabbricasse quattromilaottocento spilli al giorno. Se invece avessero lavorato tutti in modo separato e indipendente e senza che alcuno di loro fosse stato previamente addestrato a questo compito particolare, non avrebbero certamente potuto fabbricare neanche venti spilli per ciascuno». Viene esaltata così la divisione del lavoro la quale segnerà, per sempre, la superiorità dell’industria manifatturiera sui sistemi agricoli che, un tempo (ora non più), non consentivano altrettanta divisione del lavoro. Fin dal primo volume, e proprio sulla questione della divisione del lavoro, emerge l’importanza dello Stato nell’economia, che può essere sottolineata ricorrendo alle parole di Noam Chomsky: “Tutti leggnoo solo il primo paragrafo delle ricchezza della nazioni dove viene esaltata l’importanza e la magnificenza della divisione del lavoro. Ma poche persone sono arrivate cento pagine più avanti, dove Smith precisa che la divisione del lavoro distruggerà l’anima umana rendendo le persone creature stupide ed ignoranti. Per questo in ogni società civilizzata lo Stato deve necessariamente prendere delle misure in modo tale da prevenire che la divisione del lavoro raggiunga i suoi limiti».
Ed è in questo primo libro che Smith attacca, fortemente, le “Caste”. Vengono ripetutamente criticati quei politici o individui che grazie alla loro influenza (politica ed economica) riescono a manipolare il funzionamento del governo per poterne trarre un proprio vantaggio a scapito dell’interesse della comunità. Viene precisato come l’interesse della comunità deve necessariamente essere garantito dallo Stato e come associazioni quali oligopoli, banchieri internazionali, trade unions possano ostacolare l’interesse comune. Queste “istituzioni” che operano in un mercato comune, secondo Smith, nei loro incontri pianificano delle cospirazione contro la collettività, e questo il più delle volte attraverso l’aumento del prezzo dei beni che producono. Quello che viene proposto contro queste lobby, sono delle dure leggi per riportare all’interno del mercato giustizia e libertà. È evidente l’utilità di questa riflessione per capire ciò che succede oggi giorno nel mercato delle materie prime, in assoluto nel mercato del grano, regolato da grandi lobby o più esattamente oligopoli. È importante ricordare che nel caso della Compagnia inglese delle Indie orientali, cioè di una società privata che aveva conseguito un dominio monopolistico sul proprio mercato, Smith si dichiarò a favore del controllo pubblico.
Nel secondo volume, “Della natura, dell’accumulazione e dell’impiego dei fondi”, viene illustrato il ruolo della moneta e la teoria dell’accumulazione del capitale che regola la proporzione dei lavoratori utili al sistema economico. In questo libro viene analizzato il ruolo della moneta o meglio della “nuova” cartamoneta che, nel 1717, fu ufficialmente ancorata al valore dell’oro ad opera di Sir Isaac Newton. Ne viene esaltata la facilità di scambio e l’ampliamento degli scambi che ne conseguiva. Tutto questo, ovviamente, perché il valore ultimo era rappresentato dall’oro. Anche le banche vengono promosse come mezzo di sviluppo economico, precisando però che lo stato deve intervenire con delle regolazioni: «Le uniche restrizioni bancarie necessarie sono la proibizione di banconote di piccolo taglio e la prescrizione che tutte le banconote siano pagabili su richiesta».
È importante notare come il sistema capitalistico-liberale (entrambi discepoli della filosofia di Adam Smith) abbiano abolito la seconda restrizione proposta dall’autore. Dal 1971 la nostra moneta è un moneta senza un sottostante, senza un valore materiale reale una volta rappresentato dall’oro, la così detta Fiat Money. La caratteristica di tutte le nostre monete è quella di poter essere prodotta in quantità infinita. Mentre nel 1700 la moneta emessa da una banca rappresentava un debito (per la banca stessa) perché doveva essere necessariamente convertibile in oro, ora la moneta (che rappresenta sempre un debito) è convertibile solo in altra moneta, che però rappresenta sempre un debito pagabile con altra moneta, che comunque rimane debito e potrà essere ripagata solo con altro moneta-debito, e cosi via infinitamente, come il debito appunto.
La Storia e La Storia del pensiero economico, sono i protagonisti del terzo e del quarto volume. Nel terzo libro intitolato “Del diverso progresso della prosperità nelle diverse nazioni “ viene proposta una analisi storica delle teorie economiche precedenti, dallIimpero romano in poi, chiarendo che il «corso naturale delle cose porta prima all’agricoltura, poi alle industrie e poi al commercio estero». Dopo una precisa analisi storica, nel quarto libro “Dei sistemi di economia politica” si sviluppa la critica alla Storia. Questo volume, può essere ritenuto un piccolo trattato di storia del pensiero economico con una critica aspra al sistema mercantilistico grazie anche all’appoggio di una mano invisibile. Il sistema mercantilistico sviluppatosi tra il XVI e la prima metà del XVII, era un sistema economico relazionato a politiche economiche di carattere nazionalistico e protezionistico. Le politiche dei mercantilisti erano orientate verso forti esportazioni e poche importazioni, questo per garantire un saldo attivo nelle casse dello Stato. Smith critica apertamente queste politiche economiche poiché favorendo solo le esportazioni, quello che si va a creare è una restrizione del mercato generale.
È in questo volume, più precisamente all’interno del secondo capitolo che compare, per la seconda volta, il concetto della mano invisibile (la prima volta venne citato nella Teoria dei sentimenti morali). Si può ritenere che la mano invisibile (o la mano della Provvidenza) discenda direttamente dall’individualismo-illuministico settecentesco: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio – dice Smith – che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro personale interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo (self-love), e parliamo dei loro vantaggi, e mai delle loro necessità». E ancora: ciascun individuo impiegando il proprio capitale in modo da dare il massimo valore al suo prodotto «mira soltanto al proprio guadagno» ed «è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni».
Secondo Amartya Sen, premio nobel per l’Economia nel 1998, questo è stato uno dei passi più abusati della teoria smitthiana. Il Premio Nobel e docente di Harvard, fa notare come nel pensiero di Smith lo scambio, è si un beneficio per il funzionamento del mercato, ma anche come la ricerca del solo interesse personale non sia utile per il beneficio della società.
Infatti, analizzando la Teoria dei Sentimenti Morali in una sua pubblicazione, Sen fa notare, come Smith nel libro precisi che la prudenza sia la virtù più utile all’individuo ma anche che “l’umanità, la giustizia, la generosità e lo spirito pubblico (public spirit) sono le qualità più utili per gli altri”.
Secondo la rivisitazione di Sen del pensiero di Adam Smith: «Un’economia di mercato per essere di successo richiede diversi valori che includono la fiducia reciproca e la fiducia nell’altro».
Nel quinto libro “Del reddito del sovrano e della repubblica” (Of the Revenue of the Sovereign or Commonwealth), Smith analizza appunto il ruolo dello Stato e delle finanze statali nello sviluppo economico. I punti cruciali e critici di questo libro sono 3:
1) Il mantenimento da parte dello Stato della giustizia, attuabile prima di tutto garantendo la proprietà privata, quest’ultima necessaria per evitare possibili rivolte del popolo. Smith, in questo libro fa riferimento ai poveri e ai bisogni in più passaggi;
2) Il ruolo dello Stato nel garantire una istruzione per tutto il Paese, a tutti gli individui. Secondo Smith il governo deve insistere affinché il Paese raggiunga un’alfabetizzazione generale della popolazione cosi da creare individui pronti per il mercato;
3) Il debito pubblico, sopratutto quello causato durante le guerre. Sembra strano, ma è facile notare come gli Stati Uniti non seguano affatto le indicazioni di Smith: fanno guerre e accumulano debito (che compra la Cina) mentre la Cina non fa guerra e punta su una forte produttività di ogni singolo lavoratore (sia in Cina che a Milano, comprandosi inoltre il debito Americano).
Smith riconosce, inoltre, due obiettivi fondamentali che l’economia politica deve perseguire:
Provvedere ad abbondanti redditi (revenue) per il sostentamento delle singole persone;
Offrire allo Stato o al commonwealth (bene comune) sufficienti redditi per garantire il servizio pubblico.
Le prime critiche al sistema smitthiano vengono dal filosofo-giurista Jeremy Bentham. Il primo dei teorici dell’utilitarismo (teoria degli incentivi) critica Smith per l’eccessivo ruolo che attribuisce allo Stato. Può sembrare strano, ma come è ben sottolineato in quest’ultimo libro per Smith lo Stato ha un ruolo importante sopratutto nella redistribuzione delle risorse. Diversamente da Malthus e Bentham, Smith riconosceva l’importanza delle Poor Laws (sistemi di assistenzialismo sociale) proponendo anche riflessioni per il miglioramento di queste ultime.
Secondo Amartya Sen: «Smith sottolinea la necessità di varie istituzioni che garantiscano il raggiungimento di alcuni obiettivi che il mercato (da solo) non sarà mai in grado di raggiungere. Lui era profondamente preoccupato dall’incidenza della povertà, dell’alfabetizzazione e della relativa miseria sull’economia. Tutti problemi che possono diffondersi nonostante il buon funzionamento dell’economia di mercato. […] Smith richiede diverse istituzioni e diverse motivazioni – non un mercato monolitico e il solo dominio del profitto».
Uno degli elementi più importanti e discussi del pensiero di Smith è il Lavoro. Il valore di un bene è proprio la quantità di lavoro impiegata, lo stesso lavoro che rappresenta proprio il valore aggiunto alla materia prima, un valore che in ultima istanza è determinato dalla produttività del lavoratore. Anche in Italia il tema del lavoro è un tema caldo. Entro marzo il governo Monti ha annunciato il via o la conclusione della riforma del mercato del lavoro e del tanto discusso articolo 18.
Vorrei provare a far entrare in questo dibattito, tutto italiano, anche Adam Smith attraverso le sue stesse parole, dove parlando di norme viene dato risalto – anche in quest’ultimo caso – al ruolo dello Stato:
«When the regulation, therefore, is in favour of the workmen, it is always just and equitable, but it is sometimes otherwise when in favour of the masters». «Quando la regolamentazione (l’insieme delle norme), inoltre, è in favore dell’operaio, essa è giusta ed equa, ma ciò spesso non avviene, quando questa (la legge o norma) è in favore dei padroni».