Nel febbraio 2003, priva del sostegno governativo afgano, dopo la defenestrazione dei talebani, al Qaeda volse il proprio sguardo altrove, in direzione dell’Iraq di Saddam, in cui si preparava l’intervento della coalition of willing occidentale. Nove anni dopo lo scenario si ripete, perché la rete fondamentalista, incalzata dagli attacchi americani, abbandona progressivamente il teatro dell’AfPak e sposta le proprie attenzioni verso la Siria di Bashar al Assad.
La leadership jihadista è stata sorpresa dalla novità della primavera araba, in un primo momento laica, nazionale, lontana dagli slogan anti-americani e al contrario permeata di valori occidentali. Le rivolte che hanno portato alla caduta di Ben Ali e Mubarak sono state la più clamorosa smentita del paradigma terrorista, secondo cui solo la lotta armata poteva modificare lo status quo del Medio Oriente.
Adesso, però, si è aperta una fase nuova. Mentre in Tunisia, Marocco ed Egitto gli islamisti usciti vittoriosi dalle urne mostrano prudenza e ribadiscono la loro istanza dal rigorismo fondamentalista, nel resto del mondo arabo, in cui i processi elettorali appaiono lontani, si evidenzia un conflitto tra blocchi contrapposti: da una parte i sunniti, sostenuti dalle monarchie del Golfo, dall’altra gli sciiti appoggiati dall’asse Iran-Siria.
Uno scontro che a Damasco è diventato di fatto una guerra civile. Così, il successore di Osama Bin Laden, il medico egiziano Ayman al Zawahiri, ha deciso di cavalcare le proteste. L’11 febbraio con un video di otto minuti, pubblicato su Internet, ha proclamato la jihad per rovesciare il laico e detestato regime baathista.
Due giorni prima, lo stesso leader aveva invitato i qaedisti ad unirsi alla lotta degli al Shabaab contro il governo somalo. Un annuncio, quest’ultimo, che non sorprende, perché gli stessi miliziani nel 2009 aveva dichiarato la loro adesione alla rete terrorista. Questa volta i ruoli si invertono: una chiara dimostrazione del fatto che l’organizzazione, sotto pressione in Afghanistan e Pakistan, abbia la necessità di trovare nuovi campi di azione. Secondo il think tank londinese Rusi (Royal United Services Institute) al momento sono circa duecento i jihadisti non somali impegnati nel Corno d’Africa.
La chiamata alle armi siriana, rivolta ai musulmani degli Stati confinanti, Giordania, Turchia, Libano, riveste un’importanza maggiore. Al Qaeda vuole sfruttare il risentimento della maggioranza sunnita nei confronti della minoranza alawita che gestisce il potere. Le reazioni al messaggio di al Zawahiri, però, sono state fiacche, a partire dai social media come Facebook e Twitter. A dare maggiore peso alle parole del medico egiziano è stato proprio Bashar al Assad, al quale l’appello qaedista fornisce un assist prezioso per ribadire la propria tesi di un complotto ordito dall’esterno e per agitare lo spauracchio del fondamentalismo islamico. L’opposizione siriana, al contrario, è impegnata nell’evitare che la propria causa venga confusa con la jihad globale.
Secondo i report delle principali intelligence, al Qaeda sarebbe a corto di fondi e di uomini nel tradizionale teatro dell’AfPak. La maggior parte degli occidentali che si erano uniti al netwok terrorista avrebbe già lasciato il Pakistan. Lo stesso Afghanistan ha perso attrattiva, perché la battaglia che in scena a Kabul si va trasformando in un conflitto locale, i talebani hanno aperto un ufficio a Doha per trattare con gli Stati Uniti e le grandi potenze hanno programmato da tempo un progressivo ritiro.
L’AfPak non è più l’avanguardia della sfida al Satana americano. Altri Paesi, come lo Yemen, suscitano l’interesse allarmato delle cancellerie e dei servizi occidentali. La stessa primavera araba, in particolare la guerra civile libica, ha rappresentato un magnete per molti miliziani. Alcuni guerriglieri islamisti hanno partecipato al rovesciamento di Gheddafi: nella conquista di Tripoli è stato decisivo il ruolo dell’ex jihadista Abdelakim Belhaj.
Frank Cilluffo, direttore dell’Istituto sulle Politiche per la Sicurezza Nazionale e co-autore del saggio “Combattenti stranieri”, conferma le difficoltà dell’organizzazione nel Nord-Ovest del Pakistan: «I terroristi temono la sorveglianza aerea e satellitare. Gli attacchi dei droni hanno reso l’ambiente dei campi d’addestramento meno sicuro e hanno disgregato la rete». L’uccisione di Osama Bin Laden è stata un duro colpo, anche per il morale, e il reclutamento ne ha risentito.
L’appello di al Zawahiri è quindi una conseguenza delle difficoltà sul fronte asiatico. Del resto, qualcuno aveva già anticipato il messaggio del medico egiziano. Il 23 dicembre 2011 e il 6 gennaio 2012 due bombe sono scoppiate a Damasco Il 10 febbraio una serie di esplosioni ha colpito il centro di Aleppo, la capitale commerciale della Siria. Le due città erano rimaste estranee alla rivolta anti-Assad, anche per la presenza di un ampio ceto borghese allineato al regime.
Questo salto di qualità ha portato gli analisti ad interrogarsi sugli autori delle stragi. Alcuni vi hanno intravisto una manovra dello stesso raìs, per colpevolizzare l’opposizione. Assad, invece, ha puntato l’indice in maniere esplicita contro al Qaeda.
L’ipotesi non è assolutamente da escludere. Anzi, molti addetti ai lavori ritengono probabile la mano di estremisti sunniti iracheni affiliati alla rete, per quanto non direttamente controllati da essa. Non sono pochi gli ufficiali americani a ritenere verosimile il tentativo qaedista di inserirsi nel conflitto siriano, per una forma di «opportunismo, puro e semplice», come rivela una fonte anonima del Pentagono. D’altronde, anche in Iraq il confronto tra sunniti e sciiti si è fatto acceso, per cui i terroristi attivi a Bagdad potrebbero operare anche oltre confine.
L’interesse per la Siria è dettato da un ulteriore motivo. A Damasco, proprio come in Libia, circola un buon numero di armi non convenzionali, compreso un arsenale chimico, e di missili terra-aria, utilizzabili anche per colpire aerei di linea. Per ogni network terrorista si tratta di un’opportunità di rifornimento piuttosto ghiotta da cogliere.