Presentato in anteprima e fuori concorso al Festival del cinema di Roma, The lady di Luc Besson traccia la materia più intima della lotta di Aung San Suu Kyi, pacifista birmana e premio Nobel per la pace nel 1991. Una vicenda di indiscussa risonanza mediatica e, come tale, soggetta a quella pericolosa genericità che di una piccola donna di cinquanta chili restituisce spesso un culto impersonale.
Prossimo alle sale italiane a partire dal 23 marzo, The lady nasce all’opposto dall’attenta, quasi maniacale esplorazione di uno “splendido essere umano” che, secondo Besson, può servire anzitutto a ripulire il presente da quella corruzione e confusione dilaganti dalla politica allo sport. Un cuore diverso dal cuore mostrato fino ad oggi dalle comunicazioni di massa. Nella lotta di Aung San Suu Kyi, figlia del generale che condusse la Birmania all’indipendenza pagando con la propria vita il prezzo della libertà di un intero Paese, sono impresse la coerenza del dettaglio realistico e la sospensione riservata al cinema, cui non è demandata l’esatta ricostruzione politica. Emblematica a questo proposito proprio la frase del padre della pacifista sulla politica che insegue e guarda anche chi non intende occuparsene, come l’occhio di un film testimone aggiunto di una ricerca instancabile della democrazia.
Dopo aver letto la sceneggiatura ormai otto anni fa ed essersi commosso, il regista celebrato e controverso di Leon, Nikita e Giovanna d’Arco raccoglie l’eredità incerta e grande di un destino descritto nelle sue faglie nascoste. Dal rapporto di Aung San Suu Kyi (Michelle Yeoh) con il marito Michael Aris (David Thewlis), esperto di culture tibetane, alla maturità precoce e sofferta in silenzio dei due figli Alexander e Kim. Dal loro nucleo saldo dall’inizio alla fine, dalle rinunce di un compagno di vita che con Suu sposa anche la causa del popolo birmano, il film ripercorre all’indietro le tappe di un avvicinamento massimo alla storia.
Girato in Thailandia con estremo riserbo e una sceneggiatura falsa, The lady è l’esito di una lavorazione complessa fondata sul rispetto assoluto di una conoscenza da condividere universalmente. La bellezza di una donna, definita “orchidea d’acciaio” e “Mandela birmana”, è catapultata nel mezzo delle rivolte studentesche alla dittatura militare imperante dai primi anni Sessanta. La sua volontà ferma incarna la richiesta di un popolo in ribellione a seguire le orme del padre e guidare la Birmania a libere elezioni democratiche.
La macchina di Besson non leva dagli episodi più sanguinari e freddi il continuo incrocio con la paura negli occhi della famiglia di Aung San Suu Kyi, ma piuttosto fa di quella privazione di affetti e visti revocati, fucili puntati e resi infermi dal passo di un’esile figura contro migliaia di addestrati alla superstizione cieca, l’effetto più dirompente del vero. La richiesta del marito Michael per il riconoscimento del Nobel segue alla coerenza di un amore tra i due che non ammette cedimenti, quanto il motivo musicale che Suu suona al piano e sconvolge i militari ignari della musica. Uguale forza hanno i fogli che la donna affigge sulle pareti della casa-prigione, dopo aver riscritto con inchiostro nero le frasi più celebri di altri pacifisti come Martin Luther King o leader discussi come Moshe Dayan.
Attorno, la geografia birmana è altro terreno di scrittura, un secondo montaggio estratto da un girato personale di Besson con una videocamera da turista pari all’esasperata fedeltà alle più di duecento foto fornite dalla famiglia, alle cornici dei quadri appesi e alla metratura della casa in cui per oltre vent’anni la pacifista è stata rinchiusa. Ogni fiore infilato tra i capelli è il frammento di un incontro, l’interpretazione di un pensiero senza idolatrie, né presunte oggettività. Due sono i calvari visibili, dichiarati, quasi simmetrici: il bisogno di una causa che non si estingue in Birmania, ma si rivolge alle politiche di tutto il mondo – evidente nel momento in cui la Lega Panasiatica costringe i militari birmani a un gesto eclatante di liberazione temporanea – e la manifestazione più alta del dolore umano per la malattia incurabile di un marito cui è negato persino l’ultimo saluto.
Se dunque una certa logica documentaristica vorrebbe includere altri strumenti, scenari più ideologici e meccaniche brutalità di denuncia, The lady incalza invece sottilmente con una lente altrettanto lucida sul piano meno acclamato. Affonda in due occhi stravolti dallo sciopero della fame, ma sorretti da una famiglia incrollabile e si rifugia nella parola di una singola prigioniera libertaria che è forza e mente della nazione mondo.
La recensione di The Lady di Luc Besson di Martahasflowers
Luc Besson ha girato due film che se potessi gli darei un bacio in fronte: Léon e Il Quinto Elemento. Non faranno la storia del cinema forse, ma per quanto mi riguarda il killer Léon e la piccola Mathilda sono tra i personaggi più commoventi che io ricordi e so che ci ho pianto sopra tante delle mie lacrime dei vent’anni e ancora oggi mi viene voglia di ripiangerci sopra un altro po’, perché piangere fa bene, ogni tanto. Il Quinto Elemento invece è uno di quei fim che guardi con il sorriso stampato in faccia: per l’ironia sottile che fa da sottofondo e anche perché è una festa per gli occhi, con quelle scenografie, quei costumi, quei colori e c’è pure una Milla Jovovich bella ma così bella che davvero toglie il fiato e che incarna quello che mi sembra sia l’archetipo della femminilità per Besson: delicata, fragile ma guerriera. Addirittura salvifica. Salvifica è in The Lady pure Aung San Suu Kyi, che non risolleverà le sorti dell’umanità come Milla-Leeloo, ma quelle della sua Birmania forse sì.
La vicenda di Aung San Suu Kyi è nota. Figlia di un eroe della lotta per la liberazione della Birmania dagli inglesi, leader dell’opposizione del suo Paese, premio Nobel per la pace nel 1991, combatte da 25 anni per la conquista della democrazia in una terra brutalizzata da una dittatura feroce. E lo fa senza mai compiere né avallare alcun atto di violenza.
The Lady però non è un film politico (l’analisi, da questo punto di vista, resta un po’ superficiale), ma la biografia di una donna che sacrifica la sua vita di moglie e madre in nome di una difficilissima missione politica.
Anzi, no. The Lady è un’incredibile storia d’amore, di tanti amori: quello di Suu per il marito, uno studioso inglese con cui ha vissuto a Londra per 15 anni, quello enorme (forse il più enorme di tutti) del marito per lei, quello di Suu per i figli e quello di Suu per il suo Paese e la sua gente martoriata. Besson segue questa donna con delicatezza e rispetto, quasi con riverenza. Ce ne mostra la sofferenza, la paura di fronte ai fucili puntati, la solitudine, la fragilità fisica, l’incredibile determinazione e il coraggio, nonostante tutto.
Sottolinea a ogni inquadratura la sua molteplice eleganza: nel vestire, nell’addobbarsi i capelli con un fiore, nel modo sommesso di esprimere ogni emozione, dallo spaesamento al terrore, al dolore più feroce. Cioè, se io penso a me che guardo partire i miei figli senza sapere se li rivedrò mi viene da urlare già adesso, figurarsi se mi succedesse davvero. Suu, no. Suu, versa una lacrima silenziosa, poi si volta e va incontro al suo destino.
Ci sono in questo film le cifre tipiche di Besson: il suo grande amore per le donne, la capacità di costruire personaggi complessi e di indagarne le emozioni, lo sforzo di dare peso anche ai personaggi solo apparentemente secondari (in questo caso il marito, che nell’ombra è eroico almeno quanto sua moglie), la cura sofisticata per la scenografia. Non so però se sono declinate al meglio: resto convinta che Léon e Il Quinto Elemento siano tutto sommato film più riusciti nel loro genere. Ma di certo il risultato è un film potente, melodrammatico – e per questo efficace perché concentra l’attenzione del pubblico su questa vicenda. Considerando poi le difficoltà affrontate per realizzarlo (quasi in incognito, tra Birmania a Thailandia), mi sembra anche un film coraggioso.
Originariamente pubblicato sul blog Marta che guarda