Il 15 Dicembre scorso il Senato della Repubblica ha votato in prima lettura la modifica all’art. 81 della Costituzione e, nelle prossime settimane, sarà chiamato a ratificare definitivamente l’introduzione del vincolo del pareggio di bilancio nella Carta. L’articolo 138 in materia di revisione costituzionale prevede infatti che, dopo due successive deliberazioni di Camera e Senato a maggioranza qualificata di due terzi, una modifica della Costituzione è destinata a entrare in vigore senza passare dall’approvazione tramite referendum. Con il Network del Socialismo Europeo, Lanfranco Turci, ex parlamentare e presidente della regione Emilia Romagna, è stato tra i primi firmatari di un appello affinché il Senato salvaguardi la possibilità dei cittadini di decidere, attraverso un referendum costituzionale, su questa delicata materia. Linkiesta lo ha intervistato.
Com’è nata questa proposta e quali sono le motivazioni che vi stanno alla base?
Come associazione, stiamo seguendo da tempo il dibattito relativo alla crisi economica europea e internazionale. Ciò che avvertiamo è, prima di tutto, la necessità di cogliere i cambiamenti che sta attraversando il capitalismo internazionale con un approccio culturale nuovo, elemento purtroppo assente nell’ambito della politica italiana e in particolare della sinistra. Dentro un tale orizzonte, abbiamo notato che stava per essere ultimato il ciclo di cambiamento della Costituzione relativamente al pareggio di bilancio in un silenzio quasi incredibile: sono alcuni mesi che Camera e Senato hanno effettuato tre delle quattro votazioni necessarie al cambiamento della Costituzione, senza che vi sia stata nessuna eco nei grandi mezzi di stampa e nelle televisioni, nemmeno in quello che è lo strumento più veloce e attento a ciò che cambia nella situazione politica, ossia internet. Una situazione di questo genere ci ha allarmato e ci ha spinto a fare circolare, seppure all’ultimo minuto, questo appello al Senato.
Che cosa chiedete concretamente con questo appello? E che cosa c’è non va nell’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione?
Innanzitutto bisogna chiarire una questione che è fondamentale per comprendere lo spirito del nostro appello. Discussioni sul merito della proposta di introdurre il pareggio di bilancio in Costituzione si possono e si devono fare ma noi, in questo momento, stiamo innanzitutto ponendo una questione di metodo. Stiamo cioè chiedendo ai Senatori della Repubblica Italiana non tanto di rigettare la proposta di revisione costituzionale, ma di accordarsi in maniera bipartisan per astenersi dall’approvarla a maggioranza qualificata, di modo che scatti automaticamente il referendum confermativo e la questione passi nelle mani dei cittadini. In questo modo si porrebbe l’opportunità, e anche la necessità, di aprire un vasto dibattito nell’opinione pubblica circa la desiderabilità del “pareggio costituzionale” di bilancio, in modo tale da creare consapevolezza tra tutti gli elettori circa i pro e i contro di tale cambiamento. Non c’è dubbio, infatti, che le implicazioni di questa nuova normativa sono importantissime e andranno a incidere sulle possibilità di scelte future riguardanti le politiche economiche e di sviluppo dell’intero nostro Paese, riducendole di molto. Noi riteniamo semplicemente inammissibile che tali vincoli, così rilevanti, siano oggi imposti senza passare attraverso il pronunciamento della volontà popolare.
E per quale motivo, secondo lei, non si è discusso sufficientemente di un tema così importante?
Questo è ciò che davvero stupisce. In un Paese in cui su ogni questione si fanno campagne di stampa a volte persino ampiamente sopra le righe, su un tema di così ampia portata, che tocca i cardini non solamente della Costituzione ma della strumentazione della politica economica presente e futura, il silenzio è totale. Questo mi fa pensare che, da un lato, in buona parte dei parlamentari non ci sia nemmeno la consapevolezza chiara di ciò che si sta approvando unanimemente. Dall’altro lato c’è un silenzio interessato, che è quello dei grandi mezzi di comunicazione, il cui orientamento politico-culturale è totalmente a favore della concezione neoliberista e, soprattutto, di questo governo Monti. In sostanza, siamo a metà tra l’incultura, la non consapevolezza, e il calcolo.
La proposta di modifica costituzionale sembra essere ispirata alla linea Merkel, che imputa gli attuali problemi europei al debito pubblico fuori controllo nei paesi periferici e richiede austerità e maggiore virtuosismo nella gestione dei bilanci. È d’accordo con questa impostazione?
È certo che, con questo emendamento alla Costituzione, ci muoviamo all’interno dell’impostazione della cosiddetta austerity europea, della dottrina secondo cui si esce dalla crisi solo stringendo la cinghia, diminuendo la spesa pubblica, flessibilizzando il mercato del lavoro, riducendo la presenza dello Stato nell’economia e nei servizi pubblici fondamentali. Si tratta, tutto sommato, di una revisione aggiornata del vecchio Washington Consensus, proprio ora che a Washington la risposta politica attuata è di segno completamente opposto: gli Stati Uniti stanno infatti usando il bilancio e la Federal Reserve per uscire dalla crisi, mentre in Europa né i bilanci né la BCE sono autorizzati a intervenire per alleviare la situazione recessiva presente.
Come si potrebbe allora tentare di uscire dalla crisi che sta colpendo quasi tutta l’Europa?
Una risposta adeguata sarebbe quella proposta da Yannis Varoufakis e Stuart Holland, ossia l’emissione di Eurobond per un rilancio coordinato, a livello europeo, degli investimenti pubblici e della domanda, in modo da contrastare la recessione e rilanciare l’occupazione. A questo aggiungo che, come la crisi ha messo d’altronde in evidenza, non si tratta di rilanciare una qualunque domanda, ma si tratta di sostenere una domanda collegata al cambiamento del modello di sviluppo, ossia una domanda ecologicamente sostenibile, legata all’industria innovativa e all’uso di risorse energetiche alternative.
In secondo luogo, la BCE dovrebbe essere autorizzata, al contrario di quanto attualmente previsto dal suo statuto scritto sotto dettatura della Bundesbank e della cultura monetarista tedesca, a comportarsi come qualsiasi altra banca centrale, ossia tenere controllata la speculazione sui titoli pubblici attraverso l’acquisto diretto di debito nel momento in cui i tassi di interesse superino una determinata soglia di allarme. Bisogna in questo senso dare atto al pragmatismo di Draghi che, tramite l’LTRO, ha cercato di aggirare tale sanzione di impossibilità, ma occorre anche riconoscere che si tratta di una modalità di intervento molto più costosa e molto meno efficace rispetto alla possibilità di un intervento diretto nel mercato dei titoli di stato.
Lei ritiene dunque che il ruolo assegnato alla BCE sia troppo limitato?
Certamente, d’altro canto il compito storico delle banche centrali è stato proprio quello di accompagnare l’emissione del debito pubblico sovrano, garantendo tassi di interesse sostenibili. Tutta quella che oggi viene definita la Modern Money Theory, che poi è in qualche misura uno sviluppo del keynesismo e di Kalecki, è proprio la spiegazione di come la banca centrale possa sostenere monetariamente la creazione di debito entro certi limiti, in particolare quello della piena utilizzazione delle risorse, oltre il quale scatta il rischio dell’inflazione. Ciò che però non può in alcun modo essere sottovalutato è che noi oggi siamo in recessione, cioè molto al di sotto del pieno utilizzo delle risorse e l’inflazione che abbiamo deriva non dalla politica monetaria o dal surriscaldamento dell’economia ma dai costi energetici e da alcuni difetti strutturali che andrebbero corretti.
Che cosa significherebbe tutto questo per un singolo stato nazionale, come l’Italia?
A livello nazionale, queste proposte si traducono nell’obiettivo di puntare non all’azzeramento del rapporto deficit-Pil ma alla sua stabilizzazione, come proposto dall’Appello dei 300 economisti nel Novembre dello scorso anno. Si tratterebbe insomma di lasciare uno spazio di elasticità all’intervento pubblico poiché, in ultima istanza, questo tipo di crisi del capitalismo, che tutti giustamente paragonano, per gravità e profondità, alla crisi del 1929, è una crisi che comporta un rilancio dell’intervento pubblico non solo come regolazione ma anche come programmazione e indirizzo dello sviluppo.
Eppure all’intervento pubblico è spesso stato associato uno spreco del denaro dei contribuenti. Non c’è il rischio, rifiutando il principio dell’austerità, di gettarsi nelle braccia della spesa improduttiva e dello spreco di risorse da parte degli stati?
Richiedere l’intervento pubblico invece dell’austerità e del pareggio di bilancio non significa essere quelli del “debito facile”, ossia i sostenitori della spesa pubblica improduttiva, significa al contrario sostenere l’utilizzo della leva pubblica come strumento di sviluppo e non solamente, come proposto attualmente in relazione all’articolo 81 della Costituzione, come strumento di compensazione del ciclo economico.
Occorre infatti differenziare il debito “buono” dal debito “cattivo”, dove il primo è quello che finanzia gli investimenti mirati alla crescita di qualità, che promuove servizi sociali e welfare sano e quindi maggiore uguaglianza. Il debito “cattivo” è invece quello che va ad alimentare sperperi, clientele, costi ingiustificati della politica, clientelismo e investimenti inutili come sono, diciamolo francamente, alcune spese militari o come sarebbe stato il Ponte sullo stretto di Messina. Analizzando storicamente il debito pubblico italiano troveremmo l’uno e l’altro tipo di spesa, ma troveremmo soprattutto l’origine del debito pubblico italiano.
E qual è l’origine dell’elevato debito pubblico italiano?
Occorre innanzitutto considerare che, nonostante l’alto rapporto debito-Pil, l’Italia non spende globalmente più della Francia, della Germania o degli altri paesi con cui ci confrontiamo in Europa. L’Italia ha però un livello di evasione fiscale ben più alto e questo è dovuto al fatto che quando, negli anni ’60 e sotto la guida della DC, si è iniziata la costruzione dello stato sociale, questa non è stata accompagnata da una politica fiscale capace di non fare pesare la contribuzione in maniera diseguale tra diversi ceti sociali e diverse aree del Paese. Il secondo elemento alla base dell’elevato debito pubblico è stato il divorzio Tesoro-Banca d’Italia a seguito del famoso scambio di lettere tra Andreatta e Ciampi, nel 1981. In quel momento, con un semplice scambio di lettere e non attraverso atti legali vincolanti, si è deciso che la Banca d’Italia non avrebbe più avuto l’obbligo di sostenere le emissioni del debito pubblico: è così scattato un aumento del costo del debito che, cumulandosi anno per anno, ha condotto allo sfondamento che abbiamo ancora oggi sotto gli occhi.
Tutto sommato, quella che lei sta proponendo è una lettura del tutto alternativa sia riguardo alle origini della crisi del debito sia riguardo alle politiche utili per uscirne.
Al contrario di quanto viene spesso percepito, esiste nel pensiero economico un ampio dibattito teorico alternativo, come quello condotto dalle scuole di derivazione keynesiana, accanto a un ritorno di letture di ispirazione marxista e alla elaborazione di ispirazione sraffiana. Insomma, gli economisti cosiddetti critici da tempo hanno proposto, in Europa come negli Stati Uniti, risposte diverse da quelle attuali. I capisaldi di queste idee partono dalla constatazione che l’austerity comporta un meccanismo regressivo sempre più pericoloso, come dimostra l’emblematico caso della Grecia e come ha riconosciuto anche lo stesso Fondo Monetario Internazionale in relazione all’austerity ellenica. In generale, le politiche del Fiscal Compact comportano fenomeni recessivi attraverso calo della domanda, disoccupazione e diminuzione del denominatore nel rapporto debito-Pil. Riconoscendo questo fatto elementare, discendono tutta una serie di implicazioni teoriche e politiche ben diverse dalle ricette che vanno per la maggiore e sono oggi imposte ai paesi più deboli dell’Eurozona.
Ma chi potrebbe essere in grado di sostenere politicamente questa proposta?
In tutta questa intervista abbiamo spesso sovrapposto due piani che sono strettamente interconnessi ma che è giusto tenere separati da un punto di vista operativo e concettuale, ossia quello europeo e quello nazionale. A livello continentale l’esperienza sicuramente più interessante è la candidatura di François Hollande a presidente francese. Essa potrebbe diventare, in caso di vittoria, il motore capace di collegare le forze della sinistra di ispirazione in senso lato socialista presenti nei vari paesi europei, che avvertono l’insostenibilità della politica promossa dai governi di centrodestra e hanno bisogno di un fattore di aggregazione per una risposta alternativa e su scala europea. La dimensione europea è, infatti, una dimensione necessaria, perché non si può risolvere l’attuale situazione a livello di singoli stati, sempre che l’aggravamento della crisi, che io vedo come inevitabile se si persevera con le politiche vigenti, non comporti addirittura una disgregazione dell’euro e quindi l’obbligo, per ogni paese, di andare per la propria strada – con tutti gli effetti negativi che questo scenario ci lascia immaginare.
E in Italia?
Per quanto riguarda l’Italia, torno a insistere sul fatto che il nostro appello si rivolge alla coscienza personale e democratica dei singoli senatori, a prescindere dal loro schieramento di appartenenza o dalle loro opinioni personali. Chiediamo insomma di non chiudere una partita così importante dentro i confini di un Parlamento delegittimato dalla crisi politica e morale che sta squassando le nostre istituzioni, e di tutelare il diritto dei cittadini di esprimersi su questioni di fondamentale importanza per il futuro di tutto il Paese.