L’articolo 18 al tempo era l’articolo 10. Ovvero: l’articolo che si intitola “Reintegrazione nel posto del lavoro” e che nell’attuale versione dello Statuto del lavoratori ha il numero 18, quando il suddetto statuto fu approvato (14 maggio 1970) portava il numero 10 (per la cronaca: l’articolo 18 regolava i contributi sindacali).
Oggi è tutto un parlare di articolo 18, sembra che dalla sua abrogazione o dalla sua sopravvivenza dipendano le sorti dell’economia italiana. Ma quando lo Statuto fu approvato non era certo questo il cuore del provvedimento. Al tempo sembrava molto più importante che le guardie giurate non entrassero nella fabbrica per controllare l’attività dei lavoratori che non la possibilità reintegrare i licenziati.
Storicizziamo: si usciva da un’epoca in cui chi faceva attività sindacale rischiava seriamente di essere licenziato. Capofila della linea non dura, ma durissima, era la Fiat di Vittorio Valletta (aveva lasciato l’azienda nel 1966 e un anno dopo era morto) dove venivano schedati gli operai e mandati a casa quelli più attivi nel difendere i propri diritti. Insomma, si cercava di tenere buoni i dipendenti col terrore del licenziamento (che oggi la Fiat di Sergio Marchionne tenti di tenere buoni i giornalisti con il terrore dei risarcimenti è un parallelismo che forse sarà scontato, ma sorge spontaneo).
Dal 1962 ci sono al governo i socialisti, partito di sinistra e quindi – in quei tempi – dei lavoratori. A volere lo Statuto è Giovanni Brodolini, socialista, ministro del Lavoro, che affida la commissione incaricata di redigere il testo a un allora quarantenne docente universitario, Gino Giugni (Brodolini è quello il cui nome storpia Daria Bignardi, in una puntata dell’Era glaciale del 2009, suscitando la risentita reprimenda dell’un tempo socialista e allora ministro Renato Brunetta). Ma Brodolini non riesce a vedere approvato dal Parlamento il frutto del suo lavoro: muore per un tumore pochi mesi prima del voto, nell’estate del 1970. Gli succede il democristiano Carlo Donat Cattin (torinese, e quindi con un’attitudine tutta particolare verso la Fiat). Insomma, quel che interessava al tempo non era salvare il posto di lavoro di licenziandi e licenziati per motivi vari, compresi il non aver voglia di fare un tubo o il rubare nei bagagli dei passeggeri (accaduto a Malpensa). Si pensava piuttosto a salvaguardare i diritti civili e politici dei lavoratori. La fabbrica degli anni Cinquanta e Sessanta, per certi aspetti, sembrava essere un luogo dove le leggi ordinarie, o almeno alcune di esse, non erano in vigore.
E infatti nell’articolo della Stampa del 16 maggio 1970, dal titolo “Le disposizioni più importanti dello Statuto dei lavoratori” si arriva a quello che diventerà l’articolo 18 soltanto nella seconda colonna: la legge «garantisce ai lavoratori il diritto di costituire, nel luogo di lavoro, associazioni sindacali e di svolgere attività sindacale. È nullo qualsiasi atto discriminatorio che limiti questo diritto e sono ugualmente vietati trattamenti economici di favore e la formazione dei cosiddetti “sindacati di comodo” finanziati dai datori di lavoro. Sarà nullo il licenziamento senza giusta causa e in tal caso il lavoratore avrà diritto, oltre che a essere reintegrato nel posto, al risarcimento del danno subito».
Lo Statuto, in precedenza votato al Senato, viene approvato dalla Camera con 217 voti a favore (la maggioranza di centro sinistra – Dc, Psi e Psdi unificati nel Psu, Pri – con l’aggiunta del Pli, al tempo all’opposizione) si astengono Pci, Psiup e Msi e si registrano dieci voti contrari, provenienti non si sa da chi.
Tira una brutta aria, in quei giorni. Il mondo è sconvolto dalle guerre: quella del Vietnam si allarga alla Cambogia, negli Usa la polizia apre il fuoco contro gli studenti pacifisti e ne ammazza due («Uccisi due studenti negri», si titola all’epoca, quando la parola non era ancora diventata tabù), e guerriglieri palestinesi penetrano in Israele dal Libano provocando al durissima reazione isrealiana. L’Italia è sconvolta dagli scioperi, sembra che non funzioni più niente, sciopera chiunque, in qualsiasi settore. Il Corriere della sera pubblica addirittura una tabella con i vari scioperi in corso e in dirittura d’arrivo, a Napoli un gruppo di volontari interra 54 bare rimaste insepolte a causa dello sciopero dei comunali, i giornali dichiarano 7 giorni di sciopero, poi ridotti a causa delle vicine elezioni amministrative. Ma succede molto altro: al cinema riscuote grande successo un film con Anne Bancroft e Dustin Hoffman dal titolo Il laureato, la nazionale di calcio allenata da Ferruccio Valcareggi parte per il Messico, in un convegno a Venezia promosso dal Pri per la salvezza della città, dove interviene anche il segretario Ugo La Malfa, tra i relatori compare tal Franco Rocchetta che qualche anno più tardi fonderà la Liga Veneta e diventerà presidente della Lega Nord prima che Umberto Bossi lo espella. Solo pochi giorni dopo, il 22 maggio, finiranno in manette per droga Walter Chiari e Lelio Luttazzi, il magistrato che li accusa afferma: «Se sono dentro ci sono buoni motivi». Saranno invece scagionati.
In quelle ore turbolente, il discorso alla Camera del ministro Donat Cattin non è certo da pompiere: è «permeato di asprezze polemiche. Gli imprenditori e le forze politiche moderate – non escluse quelle che militano nella Dc – sono state i bersagli delle ripetute tirate del ministro», scrive il Corriere della sera. L’articolo, che comincia in taglio basso in prima pagina, cita ampiamente quello che è unanimemente riconosciuto essere il politico più ruvido della Democrazia cristiana. «I rilievi mossi allo statuto risentono in gran parte di una mentalità privatistica dei rapporti sindacali ispirata da Dossetti», dice Donat Cattin, e riflettono un punto di vista «talvolta esasperato fino a visioni di tipo americanistico che vedevano il sindacato come libero agente operante nella società al di fuori di ogni regolazione giuridica». La punta avanzata della dura azione del padronato è stata rappresentata dalla Fiat, con «massicci licenziamenti di carattere politico e antisindacale». Be’, per essere un democristiano, non c’è male davvero. Ma anche il ministro del Lavoro sembra dare un peso relativo alla questione destinata a diventare il totem dell’articolo 18. Sono state introdotte varie cose, precisa, «il riconoscimento del sindacato di fabbrica e del diritto di assemblea sui luoghi di lavoro, procedure ben determinate per l’esercizio dei diritti e dei doveri dei lavoratori, divieto del licenziamento non motivato da giusta causa».
Il Corriere precisa che i comunisti ritirano gli emendamenti e quindi si va a una rapida approvazione per alzata di mano dei 41 articoli dello Statuto. Ai comunisti quella legge lì non piaceva granché. «Il Pci si è astenuto per sottolineare le serie lacune della legge e l’impegno a urgenti iniziative che rispecchino la realtà della fabbrica», scrive l’Unità del 15 maggio a pagina 2, «il testo definitivo contiene carenze gravi e lascia ancora molte armi, sullo stesso piano giuridico, al padronato». Ma poi qualcosa concede: «Non è tuttavia privo di valore che alcuni di questi diritti vengano generalizzati nella grande maggioranza delle aziende e codificati». Alla Camera interviene Giancarlo Pajetta che sottolinea i punti più negativi del provvedimento: l’esclusione dalle garanzie previste dalla legge dei lavoratori delle aziende fino a 15 dipendenti, la mancanza di norme per i licenziamenti collettivi di rappresaglia.
Chi davvero gongola sono i socialisti. «Lo statuto dei lavoratori è legge», strilla a tutta pagina la prima dell’Avanti! del 15 maggio. «Il provvedimento voluto dal compagno Giacomo Brodolini è stato definitivamente approvato», recita l’occhiello. Nell’articolo si attacca «l’atteggiamento dei comunisti, ambiguo e chiaramente elettoralistico», mentre l’articolo di fondo, dal titolo «La Costituzione entra in fabbrica», elogia «il riconoscimento esplicito di una nuova realtà che, dopo le grandi lotte d’autunno, nel vivo delle lotte per le riforme sociali, vede la classe lavoratrice all’offensiva, impegnata nella costruzione di una società più democratica». Nel 1970 la classe lavoratrice era all’offensiva, oggi quel poco che ne resta è sulla difensiva.