La Russia, sostiene Mikhail Khodorkovskij, ha le stesse condizioni economiche e climatiche del Canada. Possiede grandi riserve di petrolio, come la Norvegia. È sostanzialmente una nazione europea, a cui appartengono «istituzioni che presuppongono la separazione dei poteri». Eppure è un Paese in cui si può andare in prigione per motivi politici. La mia lotta per la libertà (Marsilio Editore, pag. 239, traduzione di Giulia Marcucci) non è solo la voce del prigioniero più noto dell’era putiniana, la vittima di un processo-farsa, oggetto di sdegno in Occidente. È un manifesto politico, il programma di un non-candidato, se Khodorkovskij, una volta libero, manterrà la promessa di dedicare tempo e attenzioni alla famiglia. Il volume raccoglie alcuni interventi comparsi sui giornali russi dal 2004 al 2009, oltre al carteggio con tre noti scrittori – Boris Akunin, Boris Strugackij e Ljudmila Ulickaja – e a cinque interviste rilasciate alla stampa nazionale ed internazionale dall’ex-oligarca. Un uomo che, per sua stessa ammissione, ha trovato nel carcere un luogo di riflessione, nella prigionia una possibilità di lucida meditazione, nella parola scritta uno strumento per non perdere i contatti con la realtà e sentirsi ancora un cittadino.
Dal 25 ottobre del 2003, giorno in cui fu arrestato all’aeroporto di Novosibirsk – un provvedimento ampiamente annunciato, dopo che erano finiti in manette i suoi stretti collaboratori, tra cui il braccio destro Platon Lebedev – le magnifiche sorti di Khodorkovskij hanno compiuto una classica inversione di rotta, dall’altare alla polvere. Un primo processo, per frode ed evasione fiscale, conclusosi con una condanna di otto anni in appello. Un altro per riciclaggio ed appropriazione indebita del petrolio prodotto dalla Yukos, l’azienda acquisita nel 1995, all’epoca delle privatizzazioni folli dell’era eltsiniana. Tredici anni di carcere, sempre in appello, nel maggio 2011. Un perfetto romanzo della caduta, che ha una precisa data di inizio, il 19 febbraio 2003, quando Khodorkovskij ruppe il patto non scritto tra imprenditori e potere. In un incontro al Cremlino tra gli industriali e il presidente Putin denunciò in diretta tv la corruzione imperante, personificata da quella stessa Rosneft che avrebbe poi rilevato, beffardamente, i resti della Yukos.
Adesso l’oligarca che aveva acquistato l’azienda di Stato a prezzi di saldo, trasformandola in un caso di efficienza imprenditoriale – la produzione è passata da quaranta a ottanta milioni di tonnellate annue di petrolio, ripete più volte, per ribadire le ragioni politiche del processo e l’anti-economicità della scelta di smantellare l’impresa – ha perso la corona. La famiglia è lontana, negli Stati Uniti, dove sarebbe rimasto anche lui, se non avesse deciso di fare ritorno in patria, per non abbandonare al proprio destino il fido Lebedev. I beni materiali si sono dissolti. Ma nelle celle della Siberia e della Carelia Mikhail ha imparato che «la proprietà non rende l’uomo libero», al contrario è tirannica, mentre il carcere consente all’uomo di restare solo con sé stesso, con i sentimenti, le idee, le capacità, la volontà, la ragione e la fede, in una parola di compiere «l’unica scelta possibile e giusta, quella della libertà».
Il detenuto Khodorkovskij si sforza di fare in modo che il rancore della propria vicenda personale non offuschi la lucidità del ragionamento. Individua la rinascita della stagnazione autoritaria non nella presa del potere di Vladimir Putin e della sua squadra “leningradese”, nel 1999, ma nel voto presidenziale del 1996, quando Boris Eltsin, preoccupato dell’avanzata impetuosa dei comunisti di Zjuganov – vincitori delle elezioni per la Duma dell’anno precedente – piuttosto che optare per una “svolta a sinistra”, preferì manipolare l’opinione pubblica per non condividere il potere: «Nel 1996 il Cremlino sapeva che prolungare il regime eltsiniano, nella sua versione liberale di destra, attraverso una strada democratica non era possibile: Zjuganov era imbattibile. Poi è diventato chiaro che neppure la continuità del potere nel 2000 era possibile senza una seria deviazione della democrazia. Così è comparso Putin, il cui progetto autoritario è stato la diretta continuazione logica di quello di Eltsin».
Dall’epoca del secondo Eltsin a quella dei siloviki anche l’agenda russa non è cambiata. «Svolta a sinistra» è il mantra di Khodorkovskij, lo slogan che sintetizza il suo programma. Un piano che parte da una constatazione: «Le esplosioni sociali non avvengono dove si verifica un collasso economico, ma dove è giunto il momento di distribuire i frutti della crescita, non dove tutti sono più o meno uguali nella miseria, ma dove l’un per cento dei ricchi e il nove per cento dei relativamente benestanti si sono nettamente distaccati, da un punto di vista materiale e psicologico, dal novanta per cento dei poveri e dei sottomessi». È il quadro della Russia del terzo millennio, di cui l’ex oligarca elenca tutti i problemi: l’usura delle infrastrutture, la crisi demografica, la paralisi dell’industria metalmeccanica, la “morte fisica” della scienza, la decadenza dell’esercito, il declino dei settori ad alto livello tecnologico.
La bonanza di materie prime energetiche ha reso la Russia dipendente dalle commodities, impedendo la nascita di un sistema post-industriale. Occorre invece passare da «un’economia del tubo di petrolio e gas» a «un’economia del sapere», che investa nelle ricerca, nell’istruzione, in quel sistema di protezione sociale «che è proprio della mentalità e delle tradizioni storiche russe». Khodorkovskij reclama una vera e propria politica industriale, disegna una torta in cui il quaranta per cento delle entrate derivi dalle materie prime, il venti per cento dall’agricoltura e il restante quaranta dall’innovativa economia del sapere. Una piattaforma ambiziosa, che comprende anche l’ammodernamento delle forze armate, il ripopolamento di alcune aree, come la Siberia dell’Est e il lontano Oriente, in cui i cinesi spadroneggiano, e la formazione di élite regionali responsabili, attraverso l’elezione diretta dei governatori e la nascita di un effettivo autogoverno locale.
Quanto ai mezzi necessari allo scopo, l’ex oligarca punta sui frutti della maggiore crescita garantita dalla modernizzazione, ma anche su uno sfruttamento più equo delle rendite da commodities e su quella che chiama «legittimazione della privatizzazione», attraverso una tassa speciale di compensazione. Khodorkovskij riconosce che «molte fra le più grandi aziende russe sono state vendute a un prezzo simbolico», ma si difende con l’argomento che «lo scopo non era un’immediata reintegrazione del bilancio, bensì l’istituzione di proprietà efficienti, un compito pienamente realizzato». Eppure le privatizzazioni non furono efficaci dal punto di vista politico e sociale, tanto che «il novanta per cento della popolazione non le considera giuste». Adesso, invece, bisogna imitare i laburisti di Tony Blair, che negli anni Novanta non smantellarono la rivoluzione thatcheriana, ma introdussero «un’imposta sui profitti eccessivi derivanti da una congiuntura favorevole». Una svolta a sinistra, insomma, volta a creare una corrispondenza ottimale tra gli interessi della crescita e quelli sociali. Un sistema in cui lo Stato abbia un ruolo preponderante, a patto che «il popolo russo smetta di trattarlo come una forza superiore». Khodorkovskij in più di un’occasione distingue il potere dello Stato-burocrate, che è spropositato, dal suo ruolo, che è inadeguato: «La parte del Pil redistribuito dai poteri pubblici in Russia è più bassa rispetto ai Paesi sviluppati».
Il modello a cui guarda è quello scandinavo-canadese, con uno Stato forte bilanciato da una società civile matura e da una serie di pesi e contrappesi. Il consolidamento della fiducia nelle istituzioni democratiche è la conditio sine qua non per impedire che la perdita di deferenza verso il potere conduca la Russia verso il caos. Altra condizione imprescindibile è l’indipendenza della magistratura: «Non è possibile alcuna democratizzazione né alcuna liberalizzazione senza una riforma giudiziaria preventiva. I nostri problemi storici con la democrazia sono sorti soprattutto perché durante il Medioevo e l’età moderna non si è formato l’istituto del giudice, che avrebbe dato pari opportunità al padrone e al servo, al forte e al debole».
Khodorkovskij ribadisce che allo stato attuale la Russia è altra cosa rispetto all’Occidente, con la sua dialettica tra i partiti, e a Pechino, con il suo pluralismo territoriale. In alcuni passaggi ostenta ottimismo, spiega che «il regime autoritario non durerà a lungo», pena l’arretratezza, perché «i metodi repressivi, la spartizione della proprietà con la forza secondo gli interessi di gruppo non sono compatibili con il compito di costruire una nuova economia». Ma allo stesso tempo delinea due scenari. Il primo è ottimistico, democratizzazione in salsa canadese. Il secondo è pessimistico, «autocrazia e tentativo inutile di raggiungere e superare la Cina». A Vladimir Putin l’(ardua) scelta.