La burocrazia spiegata a mia moglie (americana)

La burocrazia spiegata a mia moglie (americana)

«Honey, what the fuck». L’incipit, particolarmente volgare, è quasi sempre lo stesso. Basta un cambio di residenza, un’iscrizione all’asilo nido e tra lo stupore e lo sconcerto mia moglie inizia il racconto della sua ultima disavventura burocratica. Rigorosamente in lingua inglese, come tutte le volte in cui è arrabbiata sul serio.

Piccola introduzione. Mia moglie è americana. Sei anni fa ha lasciato il Michigan – lo stato al confine con il Canada famoso per i Grandi Laghi, le fabbriche d’auto e, da qualche tempo, Sergio Marchionne – per venire in Italia. Non ha cambiato vita per me – non ci conoscevamo ancora – e non ha attraversato l’oceano per motivi professionali. Ha deciso di trasferirsi perché è innamorata del nostro Paese. È affascinata da cultura, cibo, storia, arte. E molto meno banalmente dal calore della gente e dalla diffusa ironia (anche se non sopporta due tipologie di italiani: le persone che saltano la fila alle poste e i conduttori televisivi che urlano).

Insomma, dell’Italia alcune cose le piacciono, altre meno. E poi c’è la burocrazia. Questa è la nostra unica caratteristica su cui mia moglie non è ancora riuscita a prendere posizione. La complessa macchina di funzionari pubblici, modelli da firmare e carte bollate la lascia attonita. È una realtà troppo lontana. Non la capisce. Di solito rimane a bocca aperta, lo sguardo interrogativo. Spesso si arrabbia. Anche se ultimamente comincia a coglierne il lato ridicolo, e ha iniziato a sorriderne.

Prendete l’ultima. L’iscrizione all’asilo nido della nostra seconda bambina. Una trafila solitamente lunga e noiosa, che quest’anno è stata modernizzata da un’inattesa rivoluzione tecnologica. «Stavolta la domanda si può fare anche online» mi spiega qualche settimana fa mia moglie. L’aria trionfante. Inseriti i nostri dati sulla pagina web del municipio e ricevuta per e-mail una password, compiliamo il modulo richiesto. Qui però l’iter si fa barocco. Il modulo va stampato e inviato via fax all’ufficio comunale. Qualche giorno dopo, sorpresa. Riceviamo un’altra mail. Stavolta c’è il numero identificativo necessario per procedere alla domanda di iscrizione vera e propria (scopriamo così che quella precedente era solo una pre-iscrizione). Il numero però non è completo. Ci sono solo le prime quattro cifre. Le altre quattro arriveranno per posta. Non elettronica, prioritaria. Nella cassetta delle lettere. E così a dieci giorni dalla chiusura del bando – senza avere ancora ricevuto la seconda parte del codice – mia moglie ha preferito seguire il vecchio iter. È andata a fare la fila in comune.

A volte la burocrazia online è un’opportunità. Altre volte è un obbligo. È il caso della domanda di maternità. A partire da quest’anno – un’annata evidentemente tecnologica – il modulo dell’Inps può essere compilato solo su internet. Anche stavolta per avviare la pratica è necessario avere un codice pin (che mia moglie ottiene allo sportello senza troppi problemi). E anche stavolta – chissà perché – il codice identificativo arriva per posta. Burocrazia 2.0? Manco per sogno. Il domanda deve essere compilata online. Poi, però, bisogna stamparla, allegare il certificato medico e spedire tutto alla previdenza sociale. Per posta elettronica certificata? No. Raccomandata. «Ma si può anche portarlo a mano».

Lo ammetto. Alcune volte mia moglie esagera. Ancora mi rinfaccia la vicenda della tessera sanitaria, richiesta nel 2006 e ricevuta tre anni dopo. All’indirizzo sbagliato. («Anagrafe e Agenzia delle Entrate non potrebbero essere in contatto?» si lamenta senza rendersi conto che alla fine le è andata pure bene). Altre volte ha obiettivamente ragione. C’è una vicenda burocratica che ha caratterizzato i nostri primi anni insieme. Tra lungaggini amministrative e ricorsi in tribunale ci ha accompagnato nei primi cinque anni della nostra storia. E ormai ci siamo quasi affezionati.

Prima di raccontarla serve una piccola precisazione. Pur essendo cittadina americana, mia moglie è nata in Sudamerica. Dove, quasi ovunque, i neonati ereditano il doppio cognome (del padre e della madre). Una consuetudine antica che ha colto di sorpresa il funzionario dell’anagrafe centrale di Roma. «Per la legge italiana – si è giustificato l’ufficiale quando si è trovato in mano l’atto di nascita – nessuno può avere un cognome diverso da quello del padre». E per risolvere il rompicapo non ha trovato nulla di meglio che modificare il cognome di mia moglie. Attribuendole quello del padre e della nonna paterna. «E se non ti va bene – ha liquidato le sue imbarazzate proteste – puoi fare ricorso presso il tribunale civile». Una scena surreale: in quel momento mia moglie si è trovata titolare di tre diverse identità. Sul passaporto americano aveva il cognome del padre. Nell’atto di nascita sudamericano il cognome della madre e del padre. Sulla carta d’identità italiana il cognome del padre e della nonna paterna.

Fatto il ricorso, il giudice le ha dato ragione. Per riottenere il vecchio cognome ci sono voluti solo pochi mesi (e poi dicono che in Italia la giustizia non funziona). Ma per modificare i documenti e riacquistare una sola identità è stato necessario qualche anno. Il tribunale si era dimenticato di avvertirla. 

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