Tutti a casa: ogni tanto la Cassazione dà il rompete le righe e sentenzia che “l’è tutto da rifare”. Le motivazioni giuridiche sono ineccepibili, e ci mancherebbe altro, trattandosi di quella che è conosciuta come Suprema Corte. Il punto non è questo. Il punto è che talune sentenze soddisfano la dottrina, ma lasciano perplessa la logica. Come quella del 3 maggio 2005 che ha messo la parola fine sulla vicenda processuale della strage di Piazza Fontana (Milano, 12 dicembre 1969, una bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura, uccide 17 persone e ne ferisce 88). Nessuno è colpevole. O meglio: è possibile – sostengono alcuni magistrati – che i responsabili siano i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura, ma sono già stati processati per lo stesso reato e sono stati assolti in appello con sentenza passata in giudicato nel 1987; quindi non li si può riprocessare. Ecco qua servita su un piatto d’argento la verità giuridica che fa a pugni con la verità effettuale: gli eventuali colpevoli non possono essere puniti. Quindi tutti a casa.
Non è certo questa la sede per ripercorrere le infinite vicende giuridiche dei vari procedimenti per Piazza Fontana: 11 processi in 36 anni, e senza prendere in considerazione i “danni collaterali”: le morti dell’anarchico Giuseppe Pinelli e del commissario Luigi Calabresi, solo per citare i casi più tragici. Il punto è che anche in quel caso è la Cassazione a scrivere la Storia e la sentenza provoca polemiche infinite.
Il 30 giugno 2001 la Corte d’Assise di Milano condanna all’ergastolo per la strage tre esponenti di Ordine Nuovo, organizzazione neofascista. Si tratta di Carlo Maria Maria Maggi, Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni. Il ricorso in appello ribalta la sentenza: il 12 marzo 2004, sempre a Milano, i tre vengono assolti; in primi due per insufficienza di prove, il terzo per non aver commesso il fatto.
E siamo al ricorso in Cassazione. Il 28 aprile 2005 il procuratore generale Enrico Delehaye, sia pure «con rammarico» e parlando di «sconfitta investigativa», chiede che siano confermate le assoluzioni. «Mi dolgo di occuparmi ora, a così tanti anni di distanza dal fatto», sostiene il pg, «della strage di Piazza Fontana perché non ritengo che la Cassazione sia la sede più adatta per accertare la verità, quando la verità non è stata accertata nelle fasi precedenti di giudizio. E che la luce sulla verità dei fatti sia mancata mi pare evidente, tant’è che abbiamo avuto due verdetti di merito completamente opposti».
L’unico compito del pg è verificare se nei precedenti processi le procedure siano state corrette, quindi Delehaye è consapevole di dichiarare la sconfitta della giustizia. «La strage di Piazza Fontana dopo 36 anni non ha un colpevole dichiarato», afferma concludendo la requisitoria, «e purtroppo con i limiti del giudizio di legittimità non si poteva concludere diversamente. Ma non si può nemmeno sostenere, come ha fatto il procuratore di Milano nel ricorso, che due persone assolte con sentenza passata in giudicato – Freda e Ventura – siano i responsabili di un reato».
Naturalmente le cose non possono che andare così e la sentenza della Cassazione conferma quella dell’appello: nessun colpevole. Ma al danno di dichiarare ufficialmente impunita la strage, si aggiunge la beffa – siamo pur sempre in Italia, no? – di condannare i familiari delle vittime a pagare le spese processuali. Eh già, i colpevoli non ci saranno, ma le vittime sì, quelle sono certe e quindi, visto che nel dibattimento i loro rappresentanti hanno perso, paghino. Assieme a loro paghino tutte le altre parti civili: presidenza del Consiglio, ministero dell’Interno, Comune e Provincia di Milano, Provincia di Lodi.
Scrive Paolo Colonnello nella “Stampa” di mercoledì 4 maggio 2005: «Si erano sbagliati. Non furono i tre neofascisti a mettere la bomba che devastò un venerdì pomeriggio la sede della Banca dell’Agricoltura. Non furono loro, in combutta con i “servizi deviati” e con spezzoni della Cia a trafugare l’esplosivo e a infilare sette chili di tritolo in una borsa, piazzata sotto un tavolo della banca. Si sa tutto, ogni minimo dettaglio della strage, delle coperture, delle complicità, che diedero avvio alla cosiddetta “strategia della tensione”. Tutto tranne i colpevoli».
È il gip Guido Salvini, nel medesimo articolo del quotidiano torinese, a trarre le conclusioni della vicenda. Il magistrato, che aveva seguito come giudice istruttore le maggiori inchieste sull’eversione nera, sostiene: «La verità giudiziaria non si esaurisce sempre nella condanna dei singoli responsabili. La sentenza di secondo grado, pur assolvendo i singoli imputati, ha confermato di chi fu la firma di quegli attentati. Nel caso di Piazza Fontana resta provata la responsabilità di Carlo Digilio, che era di Ordine Nuovo e non certo anarchico, la cui dichiarazione di colpevolezza, contenuta nella sentenza di primo grado e seguita nella prescrizione per la sua collaborazione, non è stata toccata dalle sentenze successive».
Insomma, i colpevoli ci sono, sono ben individuati, sono quelli di Ordine Nuovo, solo che non si possono condannare. Giustizia è fatta.