REGGIO CALABRIA – Sul fronte della matematica c’è davvero poco da ragionare: le 34 assoluzioni e le 93 condanne comminate questa mattina dal Gup Giuseppe Minutoli, nell’ambito del processo “Crimine”, sono il risultato di parecchie sottrazioni e divisioni. Degli oltre 1600 anni complessivi di carcere richiesti dalla Procura di Reggio Calabria ne sono stati concessi 568. Un numero più che dimezzato anche dal mancato riconoscimento dell’aggravante della trans-nazionalità dell’organizzazione. La condanna più alta, 14 anni ed otto mesi di reclusione (la Procura ne aveva chiesti 20), è stata inflitta a Giuseppe Commisso, “’U mastru” (Il maestro), capo società dei clan di Siderno, nella Locride, mentre il “Capo Crimine” Domenico Oppedisano è stato condannato a 10 anni di reclusione (20 richiesti). Ma la sentenza “Crimine” non è solo questione di matematica. E il cuore dell’inchiesta, scattata nel luglio 2010 con oltre 300 arresti sull’asse Reggio – Milano, batte ancora.
«Gli elementi acquisiti nel corso della presente attività di indagine – si leggeva nel decreto di fermo firmato dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Nicola Gratteri e dai sostituti procuratori Maria Luisa Miranda, Giovanni Musarò e Antonio De Bernardo – consentono di approfondire in maniera esaustiva “la questione fondamentale dell’unitarietà dell’organizzazione” e di affermare con certezza quello che già si era intuito nelle sentenze e nelle indagini finora analizzate: la ‘ndrangheta è un’organizzazione unitaria governata da un organismo di vertice, la Provincia». Un principio fatto proprio dalla sentenza del Gup Minutoli, con conseguenze strategiche per i futuri processi e le prossime attività di indagine sulla criminalità organizzata calabrese.
L’unitarietà della ‘ndrangheta. Ci hanno provato per 40 anni, in riva allo Stretto, a dimostrare in un’aula processuale che la ‘ndrangheta è qualcosa di maledettamente più complesso della somma di autonome cosche di “stampo ‘ndranghetista”. Ipotizzata a più riprese e regolarmente bocciata dal Tribunale, l’unitarietà della criminalità organizzata calabrese – definita in varie sentenze come un’aspirazione strategica, un provvisorio momento di raccordo o una tendenza embrionale – era finora sfuggita al riconoscimento più importante, quello del giudice. Non un semplice cavillo: certificare processualmente l’unità e l’organizzazione verticistica della ‘ndrangheta avrebbe permesso di accantonare una volta per tutte quella “lettura” parcellizzata, frammentaria e localistica responsabile del cono d’ombra di cui le cosche calabresi hanno goduto per decenni.
Eppure nel 1984 aveva già spiegato tutto il pentito rosarnese Pino Scriva: «Voi giudici parlate spesso di cosche divise e separate con riferimento agli ‘ndranghetisti. Questo è sbagliato. Io, al contrario, ho cercato di farvi comprendere che i mafiosi fanno parte di una stessa famiglia (…) come due o più carabinieri della stessa compagnia possono non andare d’accordo, ma non per questo fanno parte di due diverse associazioni divise e separate». Ne erano convinti i magistrati della Dda di Reggio Calabria che negli anni Novanta, nell’ambito delle inchieste “Olimpia” e “Armonia”, avevano ipotizzato l’esistenza di un organismo decisionale verticistico con il compito di assumere le decisioni più importanti e di dirimere le controversie. Le sentenze, però, non riconobbero quest’aspetto sufficientemente provato.
La ‘ndrangheta è riuscita quindi ad approdare al 2010 conservando intatto, sul piano processuale, il suo sembiante di ammasso di cosche, privo di una visione strategica ed unitaria. Poi è arrivata l’inchiesta Crimine, condotta congiuntamente dalle Direzioni distrettuali di Reggio Calabria e Milano e con l’inchiesta “Crimine” sono arrivati, soprattutto, i video del summit presso il santuario di Polsi e le immagini della riunione presso il circolo “Falcone e Borsellino” di Paderno Dugnano (Mi) a dimostrare – al di là di ogni ragionevole dubbio o di qualunque resistenza culturale – che la ‘ndrangheta è una, e non è, soprattutto, solo una questione calabrese.
Anche se tra non poche acrobazie, la sentenza del Gup Minutoli questo principio lo salva. Da qui la soddisfazione espressa dal Procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone: «Il 13 luglio 2010 le Direzioni distrettuali antimafia di Reggio Calabria e di Milano hanno portato a conclusione una lunga e complessa indagine che aveva come suoi punti centrali l’affermazione dell’unitarietà della ‘ndrangheta come organizzazione mafiosa», nonché «l’esistenza di un organismo di vertice sia pure in termini diversi da Cosa nostra siciliana e l’espansione della ‘ndrangheta fuori dai confini della Calabria in importanti zone del nord Italia ed all’estero. Questi punti centrali sono stati confermati nelle sentenze dei giudici di Milano e di Reggio Calabria che si sono susseguiti in questi mesi. La sentenza odierna rappresenta un’ulteriore fondamentale conferma proprio perché il giudice ha preso in esame oltre 120 posizioni e al termine di un giudizio estremamente accurato ha riconosciuto la colpevolezza di oltre 90 imputati, tra cui tutti i principali esponenti delle cosche reggine. Sotto questo profilo, quindi, non possiamo che essere soddisfatti di questo ulteriore riconoscimento della validità della ricostruzione, emersa grazie a indagini basate su intercettazioni, riprese video e accertamenti della polizia giudiziaria».