Ci si muove prima dietro le scene, smistati senza capire se e quando ci si siederà. Senza sapere dove andare, come spettatori attivi di una reviviscenza che è documento, memoria di testimoni e processati. Con gli occhi della drammaturgia per cantiche di Peter Weiss, si attendono altri passi di fronte a un retropalco fatto di una parete di legno sghemba. Gli attori, voltati di spalle e seduti di fronte ai propri specchi, attendono a loro volta l’incipit di Pier Paolo Pasolini: il richiamo alla verità e alla sua luce nella ripetizione delle vite.
Si apre così la messinscena de L’istruttoria prodotta dalla Fondazione Teatro Due di Parma e permanente nei teatri italiani ed esteri ormai dal 1984. I bisbigli sparpagliati e irritanti si fanno a breve silenzio collettivo, là inizia il transito della compagnia mescolata al pubblico che la regia di Gigi Dall’Aglio ben introduce a un’oscurità incessante, a tratti sospesa dai caratteri. Quelle figure che Weiss ha osservato ripiegarsi, sudare, o imporsi inflessibilmente alle parole sullo sterminio di Auschwitz durante il processo di Francoforte tra il 1963 e il 1964. Nessuna aggiunta ai volti, alle loro dichiarazioni stentate e a una mappa del campo che prevede anzitutto chi smista tra il lager e le camere a gas gli arrivi di vagoni straripanti.
Abilità è il termine ricorrente, la condizione che decreta la furia selettiva pronta a spogliare di tutto e senza distinzione d’età. Per terra, tra i vestiti e i bagagli di un uomo e una donna, anche i calzoncini e la maglia corta di un bambino: inizia la sequenza dei canti di Weiss, il faro puntato sulla scrivania processuale che legge rapidamente e marca a matita le condizioni di malattia, sevizie, denutrizione e sadismo per mano tanto dei capi della sezione politica, quanto di infermieri, medici e addetti ai forni.
La stessa squadra d’attori che 28 anni fa ha raccolto la sfida tra le più ostili a qualsiasi convenzione teatrale, cresce di gesto in parola nell’ordine di 11 atti segnati col gesso sulla stessa muraglia nera, incatramata da cui si aprono porte e finestrelle. Il racconto senza una trama voluta si alterna così dalla banchina dei treni al lager; dall’altalena delle torture alla possibilità di sopravvivere come cavie dei raggi Röntgen e alle ripetute iniezioni di liquidi in uteri presto sterili e infetti; dalla fine di Lili Tofler, arrestata per aver scritto una lettera a uno dei deportati, all’Unterscharführer Stark, la carriera di un sergente; dalla parete nera come luogo simbolo dello sterminio al fenolo delle punture mortali al cuore; dai Bunkerblok, i cosiddetti “canili” di reclusione, allo Zyklon B e ai forni dove questo composto di polvere tossica viene gettato.
Di fatto, i nomi finiscono per cascare l’uno nell’orrore dell’altro, per assomigliarsi nel grido delle fucilazioni improvvise e nelle menzogne sulle motivazioni delle migliaia di decessi nei rapporti del potere. La vivisezione impressa da Weiss alla propria versione teatrale e rispettata da Dall’Aglio nel riprodurre quadri con lo scatto delle pellicole e il ventre aperto, non si rifugia nell’oggettività ma piuttosto, proprio perché restituita alla Storia, leva alta la condanna più personale contro la strage degli anonimi Häftlinge, i prigionieri di Auschwitz. Le tavole delle malattie più rare e mai sviluppate altrove, la broda di rape e cenci sudici, la mela di quel bambino che l’ufficiale massacra per divertimento, sono tra le poche azioni disposte su un tavolo d’esame cui il pubblico è chiamato non solo per una necessaria autenticazione della tragedia, ma per l’elaborazione di un giudizio. E tra i carrelli grigi che trasportano oggetti e carichi di ogni genere, c’è “l’illuminoso” compito dichiarato da Pasolini di non scansare neppure i silenzi sui rapporti proficui tra l’industria e il genocidio.
In tempi di incrollabile revisionismo, ancora non basta. Non basta quando un soldato americano nel cuore della notte fucila senza ragione uomini, donne e bambini afgani e quell’omicidio di massa è letto come conseguenza devastante di un trauma. Non basta quando uno degli oltre quattrocento testimoni dell’istruttoria di Francoforte ammette che i non prigionieri sarebbero diventati guardie. Colpevoli e vittime sono ruoli interscambiabili nell’assenza di diritto dei lager di ieri e oggi: Weiss ne constata la contaminazione mondiale, ma non ammette pietà per chi, pur trovandosi ai margini dell’amministrazione, non ha fatto nulla per evitare il peggio. Al pubblico si chiede almeno di uscire e ricordare finché l’umanità non cesserà di scordare la propria disumanità.
L’istruttoria
di Peter Weiss
traduzione Giorgio Zampa
regia Gigi Dall’Aglio
con Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Gigi Dall’Aglio, Pino L’Abbadessa, Milena Metitieri, Tania Rocchetta
musiche Alessandro Nidi, esecuzione Davide Carmarino
costumi Nica Magnani
luci Claudio Coloretti
produzione Fondazione Teatro Due
Teatro Elfo Puccini, sala Fassbinder | Dal 13 al 25 marzo
(feriali ore 21, festivi ore 16.30)