L’eurozona ha bisogno di un sistema di protezione contro il contagio della crisi dei debiti sovrani. La strada per questo strumento, in grado di proteggere Italia e Spagna, è ancora lunga. Come riporta Reuters, la prossima settimana a Copenhagen i ministri europei delle Finanze e i banchieri centrali dell’eurozona si incontreranno per discutere del fondo utile per mettere al riparo Roma e Madrid. Ma non è detto che si trovi una soluzione definitiva. E mentre i titoli di Stato italiani e spagnoli tornano sotto pressione, complice l’incertezza sull’entità della recessione nell’eurozona, Bruxelles e Berlino litigano.
La prima concreta ipotesi di un fondo salva-eurozona risale allo scorso autunno. Con il G20 di Cannes si doveva trovare un accordo di massima un firewall di circa 1.000 miliardi di euro, a cui avrebbe dovuto partecipare anche la Cina. Tutto è però deragliato all’acuirsi della crisi greca, quando l’ex premier George Papandreou invocò un referendum popolare sulla partecipazione ellenica nell’eurozona. A cinque mesi di distanza, non si sono fatti passi avanti.
La Germania continua a essere riluttante sul firewall europeo. Il cancelliere tedesco Angela Merkel non vuole aumentare l’esposizione di Berlino alla crisi dei debiti sovrani e lo ha detto apertamente. Berlino, in base alla sua quota di partecipazione nella Banca centrale europea, ha la più elevata di tutti i Paesi europei, è la nazione che ha più sborsato per i salvataggi di Grecia, Irlanda e Portogallo. Ma anche per il fondo salva-Stati temporaneo, lo European financial stability facility (Efsf), che ha garanzie per circa 780 miliardi di euro e una potenza di fuoco di 440 miliardi. La Merkel, che il prossimo anno vedrà scadere il suo mandato, non è intenzionata ad appoggiare un incremento del fondo salva-Stati permanente, lo European stability mechanism (Esm), dotato di un tetto massimo di 500 miliardi di euro. Le trattative fra Bruxelles e Berlino sono ancora in corso, ma il ministero tedesco delle Finanze negli ultimi giorni ha più volte ribadito che non ci saranno aumenti. «È una questione di qualità del fondo, non di quantità», ha detto ieri Ludger Schuknecht, ministro federale delle Finanze tedesco. Ecco quindi perché si sta studiando una soluzione alternativa. Per ora tutto è in mano a Bruxelles.
La posizione della Commissione europea è diversa. Come già anticipato alcuni mesi fa il primo approccio del super fondo a protezione dell’eurozona sarà un’integrazione dell’Efsf con il fondo Esm. Quest’ultimo doveva entrare in vigore a metà 2013, ma il suo effettivo avvio è stato anticipato di un anno in vista del peggioramento della crisi ellenica. Dotato di un tetto massimo di 500 miliardi di euro, insieme allo Efsf, per complessivi 940 miliardi di euro, comporrà l’unica ancora di salvataggio nel caso Spagna e Italia avessero bisogno nei prossimi sei mesi. Il tempo di organizzare il rinnovo delle quote presenti nel Fondo monetario internazionale.
All’interno dell’istituzione guidata da Christine Lagarde, infatti, restano da definire troppe questioni. Deve ancora essere discussa la ridivisione degli Special drawing rights (Sdr, in italiano Diritti speciali di prelievo), ovvero l’unità di conto del Fmi, agganciata a quattro valute: dollaro statunitense, euro, sterlina inglese e yen. In previsione c’è l’apertura ai Bric (Brasile, Russia, India, Cina) e si sta valutando l’impatto che una moneta come il renminbi potrebbe avere sulle dinamiche interne al Fmi. Prevista per febbraio, la discussione avverrà solamente dopo che l’Europa avrà dato il via al suo piano di protezione.
Sul lato bancario, invece, c’è più tranquillità. La Banca centrale europea ha messo in campo quanto poteva per arginare la crisi di liquidità del sistema interbancario. Fra maggio e l’inizio di dicembre la situazione è deteriorata tanto velocemente quanto profondamente. Per questo sono stati lanciate due operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Long-term refinancing operation, o Ltro) in dicembre e in febbraio. Nel complesso sono state garantite linee di credito per gli istituti bancari per circa 1.030 miliardi di euro. Buona parte di questo sono e saranno utilizzati per le esigenze di rinnovo dei portafoglio sui titoli di Stato in loro possesso. In altre parole, le banche hanno ossigeno. Come spiegava la statunitense Morgan Stanley nello scorso gennaio, «le banche europee posseggono un’arma in più, con la quale possono diluire le perdite che derivano dalle svalutazioni sui titoli governativi dell’eurozona periferica». Come avvenuto con la Grecia, oggetto della ristrutturazione del debito sovrano due settimane fa.
Il tempo stringe e l’ossigeno della Bce rischia di esaurire il suo effetto placebo in fretta. Come ricorda Willem Buiter, capo economista di Citigroup, in un report di una settimana fa, «o si agisce velocemente o il contagio potrebbe colpire Italia e Spagna, che rimangono comunque fra gli anelli più deboli dell’eurozona». Parole che ricordano da vicino quelle che ha ieri pronunciato Claus Raidl, numero uno della banca centrale austriaca. «Serve un piano anti-contagio entro la fine di aprile, per essere tutti più al sicuro», ha detto Raidl. Dopo, potrebbe essere troppo tardi.