Circa un anno fa Linkiesta si era occupata delle obbligazioni bancarie, strumenti d’investimento che in teoria dovrebbero essere semplici e relativamente sicuri. Al contrario avevamo scoperto che molti bond emessi dagli istituti di credito non soltanto presentavano un grado di complessità molto elevato per il risparmiatore (così come i costi di sottoscrizione) ma non avevano nemmeno un rendimento particolarmente attraente. Niente di strano: era tutto scritto sul prospetto informativo. A saperlo leggere.
La banca d’affari Morgan Stanley ha calcolato che, nelle due aste (Ltro) di durata triennale a un tasso dell’1% messe in campo dalla Bce per normalizzare le esigenze di rifinanziamento degli istituti di credito, Intesa Sanpaolo ha prelevato complessivamente 36 miliardi di euro, Unicredit circa 24, Monte dei Paschi 15, Ubi banca 10,5 e il Banco Popolare 7 miliardi. I medesimi istituti hanno impiegato i fondi della prima Ltro di dicembre per riacquistare i propri strumenti ibridi, non più conteggiabili nel cuscinetto di capitale richiesto da Basilea III per assorbire gli shock sistemici e per fare incetta di titoli di Stato. Tra dicembre e gennaio le banche hanno sottoscritto più di 32 miliardi di bond del Tesoro, e hanno registrato ghiotte plusvalenze dal ritiro dei bond ibridi: dai 15,8 milioni di Ubi ai 98 milioni del Banco Popolare, dai 530 euro lordi di Unicredit ai 180 milioni di Intesa Sanpaolo. Al contempo, sono tornate a rivolgersi poderosamente agli investitori istituzionali: nell’ultimo mese Unicredit e Mps hanno emesso rispettivamente 1,5 miliardi a testa di bond senior, un miliardo Intesa Sanpaolo.
Quest’anno andranno a maturazione 20 miliardi di debiti per Intesa, 28 miliardi per Unicredit, 10,3 per il Monte dei Paschi, 9 per Ubi e il Banco Popolare. Di questi, ce ne sono alcuni che, come detto, avevamo provato ad analizzare un anno fa. Quanto quotano oggi sul mercato secondario? Il bond «One coupon con bermudan swapation» del Banco Popolare, scadenza nel 2016, ha un nome che evoca lontani paradisi esotici, dietro al quale si cela però uno strumento non troppo conveniente: non solo «sono previsti oneri impliciti (…) che determinano una immediata e inevitabile riduzione del prezzo di mercato rispetto a quello di collocamento, fin dal momento immediatamente successivo all’emissione», ma il rendimento netto a scadenza è pari all’1,60% – quello medio annuo è dell’1,73% – molto meno di un Btp di pari durata (3,93%). Investendo mille euro, al netto delle spese di collocamento (67 euro), si guadagnano 17,3 euro l’anno, 39 con il Btp quinquennale. Sul mercato secondario è totalmente illiquido: «no dealers are pricing this» si legge sugli schermi Bloomberg. Significa che non c’è un mercato per queste obbligazioni, quindi se un cliente vuole conoscere il loro valore è necessario che si rivolga all’istituto veronese.
Il prossimo 28 settembre, invece, scadono le obbligazioni Ubi a tasso fisso 2,15% emesse dalla banca lombarda nell’autunno di due anni fa. Mille euro investiti all’epoca, 977 al netto degli oneri impliciti e commissioni, oggi ammontano a circa 995 euro. Il prezzo più elevato che un compratore è disposto a pagare e il prezzo più basso al quale un venditore è disposto a cedere è pari, rispettivamente, a 99.503 e 99.599, fatto 100 il suo valore nominale. Tradotto: il migliore prezzo che può spuntare un risparmiatore qualora volesse liberarsi dei suoi ipotetici mille euro investiti in bond Ubi è uguale a 995 euro. Per quanto minimale (5 euro) è pur sempre una perdita.
Anche in questo caso, peraltro, il rendimento dei titoli del Tesoro della medesima durata è superiore (2,3%). Molto più basso è invece il rendimento dell’obbligazione di Mps che scade il prossimo 30 dicembre, il cui rendimento netto è appena dello 0,94 per cento. La proposta di vendita è pari a 98,15, ma non c’è nessuna richiesta d’acquisto. Tra un anno, infine, scadono i bond a tasso fisso del 2,6% di Intesa Sanpaolo. Gli strumenti sono scambiati molto vicini al valore nominale, infatti il prezzo denaro/lettera è pari a 99,88/100,09, e rendono leggermente di più rispetto ai titoli di Stato di pari durata.
Questi pochi esempi dimostrano che, pur essendo il quadro molto variegato, in tre casi su quattro era meglio acquistarli sul mercato secondario, oppure puntare sui bond del Tesoro per far fruttare i propri risparmi a un costo contenuto e con relativa sicurezza. Un principio, quello del confronto con il rendimento dei titoli di Stato di omologa scadenza, che andrebbe tenuto a mente prima di sottoscrivere le emissioni societarie. In questo periodo, infatti, il mercato è inondato dai cosiddetti “corporate bond”. Come mai? Da un lato la liquidità di Eurotower ha ridato fiducia ai mercati, dall’altro le società con buoni fondamentali e rating elevato rappresentano, per gli investitori, una forma ugualmente remunerativa e sicura, date le incerte evoluzioni della crisi dei debiti sovrani.
Fiat ha annunciato di stare valutando un’emissione obbligazionaria, mentre Enel l’ha chiusa da poco, collocando 5 miliardi di bond a tasso fisso (5%) e variabile (4,5% la prima cedola) con scadenza al 2018. A ottobre 2011, invece, era stata la volta di Eni, con un bond reatail che scadrà nel 2017 e paga un rendimento lordo del 4,93% per il tasso fisso (a scadenza) e a tasso variabile (4,56% la prima cedola), anch’esso andato a ruba con domanda che ha superato l’offerta. Clamoroso, infine, il caso di Luxottica, che ha emesso un bond da 500 milioni di euro andato a ruba in mezz’ora a fronte di richieste per 9 miliardi. Tutti titoli di società tra le più capitalizzate del Ftse Mib, il principale listino di Piazza Affari, che dovrebbero essere sicuri quanto i titoli di Stato, ma rendere di più.
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