Male sugli ammortizzatori, bene sul precariato: Ichino dà i voti alla Fornero

Male sugli ammortizzatori, bene sul precariato: Ichino dà i voti alla Fornero

Le luci

  1.  Per la prima volta in decenni si delinea un intervento di contrasto serio ed efficace contro la grave anomalia tutta italiana dell’utilizzazione delle collaborazioni autonome continuative in posizioni di lavoro sostanzialmente dipendente.
     
  2. Sui contratti di lavoro subordinato a termine si interviene in modo giustamente più morbido, comunque perfettamente in linea con la direttiva europea del 1999: li si rendono un po’ più costosi rispetto al contratto a tempo indeterminato.
     
  3. Si incentiva anche il ricorso al contratto di apprendistato, oggi troppo poco utilizzato in Italia per l’inserimento dei giovani nel tessuto produttivo.
     
  4. Si istituisce per la prima volta nel nostro Paese un sistema universale di assicurazione contro la disoccupazione.
     
  5. Si volta pagina rispetto a decenni di uso distorto della Cassa integrazione guadagni nelle crisi occupazionali aziendali.
     
  6. Per la prima volta nell’ultimo quarantennio si determina con precisione il severance cost, cioè il costo di separazione tra l’impresa e il lavoratore per motivi economico-organizzativi, così superando una anomalia del nostro sistema rispetto a tutti gli altri ordinamenti occidentali.
     
  7. In questo modo si muove un passo rilevante per il passaggio da un sistema di job property a un sistema di responsabilizzazione dell’impresa (entro limiti ben determinati) per la sicurezza economica e professionale dei lavoratori. Considero questo passaggio come una necessità vitale per il sistema economico del nostro Paese, poiché esso favorisce la migliore allocazione delle risorse umane e materiali e l’aumento della produttività.
     
  8. Con la determinazione del severance cost e con la redistribuzione della flessibilità su tutta la forza-lavoro, si eliminano due dei fattori (certo non i soli, ma neppure dei meno rilevanti) della scarsissima attrattività del nostro sistema per gli investimenti stranieri: la rigidità del regime di job property nell’area del lavoro regolare e la necessità di attingere la flessibilità necessaria da una zona grigia, al confine tra il regolare e l’irregolare, nella quale – si sa – gli operatori stranieri si districano molto peggio rispetto a quelli indigeni.

Le ombre

  1. A me sembra sbagliato che l’indennizzo per il licenziamento economico sia dovuto dall’impresa soltanto nel caso di sua soccombenza in giudizio. Prevedere che l’indennizzo sia dovuto sempre, all’atto del licenziamento stesso, è più equo perché il lavoratore non ne ha meno bisogno nel caso in cui il licenziamento è più giustificato. Prevedere che l’indennizzo sia dovuto sempre – salvo ovviamente il caso del licenziamento disciplinare – è più efficiente, perché in questo modo esso diventa un efficacissimo filtro automatico della scelta di licenziare, penalizzando l’impresa meno capace di manpower planning. Così, infine, si dimezzerebbero le controversie giudiziali in materia di licenziamento.
     
  2. L’indennizzo per il licenziamento economico, inoltre, non è modulato in relazione all’anzianità di servizio; con la conseguenza che, nel suo minimo (15 mensilità), esso è troppo oneroso nella fase iniziale dei rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, i quali sono così resi troppo poco appetibili in sostituzione delle collaborazioni autonome continuative e dei contratti a termine. Per favorire la trasformazione delle collaborazioni autonome in lavoro subordinato regolare a tempo indeterminato, inoltre, non vedrei male che in questi casi si disponesse il mantenimento del contributo previdenziale al di sotto del 30% per il primo triennio dalla conversione.
     
  3. Nella nuova disciplina dei licenziamenti compaiono ancora in misura troppo ridotta:
    a) l’applicazione effettiva del principio della condizionalità del sostegno del reddito al disoccupato;
    b) l’incentivo all’impresa che licenzia per l’attivazione dei migliori servizi di outplacement, al fine di ridurre al minimo i periodi di disoccupazione. L’onere per l’impresa che licenzia consiste infatti esclusivamente in un’indennità di scioglimento del rapporto, invece che essere ripartito tra un’indennità e un trattamento complementare di disoccupazione. Questo trattamento complementare, oltre a costituire un potente incentivo all’attivazione dei migliori servizi per la ricollocazione del lavoratore e al controllo sulla disponibilità effettiva di quest’ultimo (generando un interesse diretto dell’impresa per la ricollocazione più rapida possibile), consentirebbe di aumentare l’entità del sostegno del reddito e di allungarne la durata per i casi nei quali il ricollocamento è più difficile, senza che questo generi allungamento dei periodi di disoccupazione.
     
  4. Last but not least, sarebbe meglio limitare l’applicazione della nuova disciplina ai nuovi rapporti di lavoro (secondo il metodo di transizione che i politologi indicano col termine layering), o quanto meno differire di qualche anno la sua applicazione ai rapporti già esistenti, innanzitutto per consentire il necessario riassestamento degli assetti contrattuali (poiché la nuova norma altera, sia pure marginalmente, il contenuto assicurativo del rapporto, è necessario consentire che anche il premio assicurativo implicito si ridetermini corrispondentemente). In secondo luogo, questo è necessario per evitare che l’ansia da recessione indebolisca politicamente la riforma. Su questo terreno e su quello della modulazione dell’indennizzo per il licenziamento economico in relazione all’anzianità di servizio vedo la possibilità di una mediazione politica decisiva.
    *originariamente pubblicato sul sito di Pietro Ichino

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