Nadia e gli altri, nati in Italia e portati nei Cie a 18 anni

Nadia e gli altri, nati in Italia e portati nei Cie a 18 anni

«’So de Roma. Buttatemi a mare, è meglio, ma non mandatemi in Africa». Nadia è nata a Guidonia e parla con l’accento forte della periferia romana. «Non si può rischiare di essere espulsi in un paese del quale non si conosce nemmeno la lingua perché non ci si è mai stati, solo perché i propri genitori da lì provengono. È una follia». Tutto inizia durante una serata come tante, al pub insieme al fidanzato. Fuori dal locale scoppia una rissa, arrivano i carabinieri. Adesso mi chiedono i documenti e tutto finisce, pensa Nadia. Invece la portano all’Ufficio immigrazione. La ragazza, 19 anni, non ha il permesso di soggiorno. Per lei si aprono le triple inferriate del CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Ponte Galeria.

«Quando sono entrata è stato uno choc», racconta. «Non capivo perché dovessi stare lì dentro. Io non ho rubato e non ho commesso reati, ho solo un padre che non mi ha rinnovato il permesso di soggiorno». Una situazione kafkiana a cui si aggiunge la delicata problematica familiare. È in corso un procedimento giudiziario, dovrà testimoniare delle violenze subite dal padre. Ma perché una ragazza nata in Italia deve rinnovare il documento come un migrante appena arrivato?

Al compimento della maggiore età, i figli degli immigrati sono ancora stranieri. Devono rinnovare annualmente il documento. Per farlo devono avere un lavoro (è la motivazione principale, a cui si aggiungono casi particolari per giustizia, studio, motivi umanitari). Altrimenti finiscono tra le sbarre. «Nadia stata è rinchiusa nel CIE malgrado l’interessamento di persone importanti», dice la deputata PdL Souad Sbai, anche lei di origini marocchine. «Aspettiamo che finisca il processo che riguarda il padre, poi il lavoro glielo troviamo».

Casi estremi da risolvere individualmente o il segnale di una legge che non funziona? «Ho proposto di cambiare la Bossi-Fini», dice Sbai a Linkiesta. «Non è accettabile che chi nasce e vive in Italia venga mandato via. A casa? Ma casa sua è qui». Quanti la pensano così nel PdL? «Penso che la maggioranza sia favorevole. La legge va cambiata. L’ha ammesso anche il presidente della Camera». Non crede che i CIE stiano diventando centri di detenzione per disoccupati? «Sì, ci sono padri di famiglia che hanno lavorato per 20 anni in Italia. All’improvviso sono disoccupati, come tanti italiani. Che possono fare? È l’articolo 16, rischiano l’espulsione. Io ho fatto la mia proposta per cambiare, spero che il governo Monti la accolga». Il 12 gennaio la ragazza è stata liberata. Ha ottenuto un permesso si soggiorno per motivi di giustizia. Che scadrà tra un anno, quando avrà bisogno di un lavoro. Perché lei – a differenza delle sue amiche italiane – non potrà permettersi di essere disoccupata.

Senad e Andrea dal 10 febbraio sono rinchiusi nel CIE di Modena. I due ragazzi, 24 e 23 anni, sono nati a Sassuolo. Dopo un controllo, la polizia scopre che non hanno i documenti in regola. Ma non è colpa loro: il permesso di soggiorno dei genitori è scaduto perché hanno perso il lavoro. Lo status irregolare si trasmette ai figli.

Il Questore notifica un provvedimento di espulsione. Ma verso quale paese? I genitori non li hanno mai segnalati all’ambasciata bosniaca e non hanno fatto domanda per naturalizzarli nel paese balcanico. Tecnicamente sono apolidi, nei fatti sono italiani. Sperano che la squadra neroverde vada in Serie A, hanno frequentato la scuola emiliana. «In questa specie di carcere ci chiamano ‘ospiti’» dicono. «Ma non lo siamo. Rimaniamo qua a spese del contribuente italiano in attesa di un provvedimento che non potrà mai essere eseguito».

Un’associazione locale ha lanciato una petizione a favore dei due ragazzi. Una campagna più ampia (L’Italia sono anch’io) sta raccogliendo le firme: vuole portare il Parlamento una proposta di legge popolare sulla cittadinanza per i nati sul suolo italiano.

«Si è trattenuto senza giustificato motivo in Italia». Con questa secca frase in coda a un foglio, la Questura di Varese interrompeva 23 anni di vita italiana. Karim adesso si trova in un paese che non è più il suo.
“Qualcuno lo ha segnalato”, ci racconta in lacrime la compagna. Lei è di Varese, dall’estate li hanno separati. «Lavorava come muratore, ma da qualche tempo nessuno lo metteva in regola. I suoi lavoretti continuava a farli. Aveva un reddito ma non un contratto». Nel paesino di Sesto Calende, zone dove la Lega domina, un arabo ben vestito fermo di mattina al bar non passa inosservato. Nel corso di un controllo per un certificato di residenza la polizia locale lo sorprende senza documenti in casa del cugino. Arriva il decreto di espulsione e quindi la reclusione nel CIE di Bari. Dall’estremo Nord al Sud, perché ti portano nel centro dove ci sono posti liberi. In Puglia il giudice di pace non convalida il fermo e annota: non ha rinnovato il permesso di soggiorno «a causa della crisi economica e conseguente riduzione dei posti di lavoro nella zona in cui risiedeva».

Karim torna in Lombardia. Gli dicono di presentarsi in Questura. Lui non ha nulla da nascondere, ma dopo una nuova verifica viene nuovamente inviato al CIE. Questa volta è quello di Modena. Arriva l’espulsione: in nave da Genova a Tunisi. «Il giudice ha deciso che potrà provare a rientrare tra almeno tre anni», conclude la compagna. «È abbattuto, nella sua città non c’è lavoro».

A Karim la Questura ha consegnato un decreto di espulsione che prevede l’accompagnamento alla frontiera. Di solito è quello che accade ai migranti sorpresi senza permesso di soggiorno. Spesso si tratta di persone che hanno perso il lavoro e sono condannati ad essere “invisibili” (dopo un decreto di espulsione è praticamente impossibile riemergere nella legalità). Si finisce nel CIE quando non è possibile identificare con certezza lo straniero, tipicamente perché non possiede un documento valido per l’espatrio.

«C’è di tutto nei centri», spiega il deputato Pd Andrea Sarubbi. «La badante moldava senza passaporto che è stata spedita dentro da un prefetto di terra leghista, mentre magari a Roma, non considerandola un pericolo sociale, avrebbero chiuso un occhio. C’è la lavoratrice cinese che il console si rifiuta di riconoscere, con il pretesto di non sapere da quale parte della Cina provenga. C’è il delinquente abituale tunisino che nessuno si è preso la briga di identificare una volta per tutte e di rimandare a casa. E quindi finisce al CIE appena lo trovano per strada senza documenti, per poi riuscirne e ricominciare tutto da capo». La vita nei centri è scandita da atti di autolesionismo, rivolte e tentativi di fuga. Nel novembre del 2011, agli “ospiti” di Ponte Geleria furono tolte le scarpe. Con le ciabatte non si scavalcano tre file di sbarre.
 

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