I prossimi mesi saranno cruciali per il futuro dell’Unione europea. Con le tornate elettorali di Francia, quest’anno, e Germania, nel 2013, esiste un rischio concreto, quello della balcanizzazione dell’Ue. La possibile deriva populista e anti-europeista di cui si possono già cogliere i primi segnali sull’asse Parigi-Berlino fa più paura della crisi dell’eurozona, almeno nel lungo termine. E come fa notare il think-tank britannico Open Europe, «è un pericolo che non è ancora stato percepito dagli euroburocrati».
Oggi il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, presente in Italia per un evento milanese, ha lanciato una stilettata a Roma. «Ci sono alcune cose che non vanno bene in Italia». Parole pesanti, che arrivano nel mezzo del programma di consolidamento fiscale che vede protagonista il Paese. Barroso però dovrebbe guardare con più attenzione a ciò che sta avvenendo nell’Ue.
I Paesi laterali all’eurozona, per ora, hanno risentito meno degli effetti della crisi dei debiti sovrani. Il contagio è stato meno virulento che nel cuore dell’Ue. In modo legittimo, sono sempre più le posizioni che vanno contro l’Europa, non solo contro l’euro. Non deve stupire che la Polonia, nemmeno troppo implicitamente, stia rallentando il processo di entrata in vigore dell’euro. Del resto, la valuta locale, lo złoty, garantisce a Varsavia un gap interessante dal punto di vista commerciale e, considerati i disordini di governance che sta vivendo l’eurozona.
Il populismo è il rischio più concreto. Parlando in via informale a Linkiesta un funzionario della Commissione europea non usa mezzi termini: «È chiaro che le elezioni in Francia e in Germania sono uno pericolo per la stabilità dell’Ue». La corsa all’Eliseo, che sta vedendo contrapposti il presidente uscente Nicolas Sarkozy e il socialista François Hollande, si giocherà nelle ultime battute su chi andrà più a favore o contro l’euro. Il sentore è che il nuovo pacchetto di governance economica europea, il Fiscal compact, sarà abbandonato velocemente dai nuovi esecutivi che saliranno al potere. Con buona pace dei sogni di una maggiore integrazione fiscale e di un concreto salvataggio dell’euro. Lo ha evidenziato anche Institut d’études politiques (Iep) parigino. In un’analisi pubblicata a inizio gennaio, i ricercatori hanno sottolineato che «per vincere le elezioni francesi e tedeschi, gli esecutivi correnti non possono dimenticarsi il sentimento presente nei loro elettorati». E questi, come rivelano plurimi sondaggi bipartisan, evidenziano che i cittadini europei sono sempre meno sicuri della funzionalità delle aree economiche-politiche in cui vivono e operano. In altre parole, non si fidano più di un’Europa che vedono come un «lento dinosauro burocratizzato», come sintetizza l’Institut d’études politiques.
Il risultato è che l’appeal dell’Ue stessa è appannato. La Turchia, che fino al 2010 continuava a spingere per l’entrata in Europa, ha lentamente cambiato opinione. Colpa, da un lato dei continui ritardi di Bruxelles nel processo di integrazione, dall’altro della sensazione che la crisi debitoria in cui è piombata l’eurozona abbia scoperchiato il vaso di Pandora delle inefficienze dell’Ue. Su punti analoghi sta puntando, seppure con altri toni e diverse motivazioni, anche il premier ungherese Viktor Orban. Le critiche dell’Ungheria verso Bruxelles, tacciata di essere come l’Unione sovietica, si sono basate proprio sull’estrema burocratizzazione. Veloce è stata la replica di Barroso: «Chi paragona l’Ue all’Urss non ha ancora capito realmente cosa sia la democrazia». Le schermaglie fra Bruxelles e Budapest sono però destinate a continuare ancora per molto, dato il grado di popolarità che Orban ha nel suo Paese.
Quello che rischia di succedere è una frammentazione più o meno pesante in virtù del grado di populismo e di malcontento che si potrà raggiungere. Poco prima di Natale la banca francese Société Générale ha pubblicato una ricerca sui trend politici nei Paesi dell’eurozona periferica, cioè Grecia, Irlanda, Portogallo, Italia e Spagna. Sulla base della forza della crisi economica, dei bailout avvenuti e del costante deterioramento del mercato occupazionale, SocGen ha messo in fila i principali pericoli per i prossimi anni. Al primo posto, la deriva populista. Al secondo, l’uscita di uno Stato dall’eurozona. Dello stesso tenore, ma datata settembre 2011, è stato un report di Ubs, nel quale si prendevano in esame gli scenari politici in un Paese dell’eurozona in due casi: secessione di quella singola nazione o collasso completo dell’euro. In entrambi, l’installazione di un regime autoritario era data come un rischio sensibile.
Due giorni fa Foreign Policy si è domandato perché qualcuno dovrebbe aver voglia di entrare nell’Ue. La risposta alla domanda, guardando ai recenti sviluppi, potrebbe non essere quella sperata dagli europeisti. In particolare, fanno riflettere la perdita di sovranità nazionale in virtù della Germania, leader indiscusso della zona euro, e la particolare conformazione della stessa area economica. 17 economie, 17 interessi, 17 politiche: l’eurozona è da sempre considerata zoppa. Come l’Europa del resto. E come ha scritto Niall Ferguson, «la crisi non ha fatto altro come mettere in evidenza tutte le lacune europee».