ALBIGNASEGO (Padova) – La mattina del 26 ottobre 2009 Idris Jebali, un operaio tunisino da molti anni in Italia, è fuori dalle Fonderie Zen di Albignasego, comune di 23mila abitanti alle porte di Padova sud. I cancelli dello stabilimento di via Marco Polo sono chiusi, ed il silenzio – interrotto solo dal rumore delle automobili che transitano sulla trafficata Strada Battaglia – sostituisce l’usuale clangore dei macchinari. Jebali si mette sul petto un cartello con la scritta «Garro si arricchisce / il lavoro finisce» e percorre a piedi gli oltre 10 chilometri che separano l’impianto dal Tribunale di Padova.
Ad aspettarlo lì davanti ci sono i suoi colleghi, riuniti per una manifestazione. Dentro, il giudice del lavoro Giovanni Amenduni informa sindacalisti e avvocati che il ministero dello Sviluppo Economico ha dato l’assenso all’amministrazione straordinaria in base alla legge Prodi-Marzano. L’istanza di fallimento presentata dai creditori è dunque respinta. «A noi lavoratori – commenta a caldo Jebali – interessa solo salvare la fabbrica che, da sempre, rappresenta la nostra famiglia e l’unica fonte di sostentamento». Le tute blu sono soddisfatte: il peggio è evitato – per ora. Ma sono anche perfettamente consapevoli del fatto che risollevarsi non sarà facile. Sarà un’avventura.
Fondata dalla famiglia Zen nel 1925, la fabbrica nasce come officina meccanica ed è una delle aziende storiche di Padova. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Zen si trasforma gradualmente in una fonderia che produce (soprattutto) ghisa sferoidale di componenti per macchine agricole, movimento terra e trasporti. Nel 2004 l’imprenditore Florindo Garro, che già lavorava per Zen come fornitore, acquisisce la fonderia. Seguiranno Fonderia del Montello (Montebelluna, provincia di Treviso) e altri significativi investimenti in Francia. Nel 2008 il gruppo Zen arriva a disporre di sette siti produttivi tra Italia e Francia, può contare su 1.900 dipendenti ed ha un fatturato di circa 500 milioni di euro. Il volume di lavoro è sostenuto, le prospettive di crescita floride. Poi, la grande crisi.
Le difficoltà della branca francese del gruppo, esposta nel settore automotive, si riversano a valanga sulle fonderie italiane. «La fragilità finanziaria di tutto il gruppo – spiega a Linkiesta il commissario straordinario Giannicola Cusumano, un commercialista di Verona – non ha fatto altro che complicare la situazione e ingigantire gli effetti del mercato». In astratto, il progetto di Garro poteva essere buono, poiché si sarebbe fornito al cliente un servizio completo: dalla fusione al pezzo lavorato. Ma, dice Cusumano, «l’approccio finanziario è stato sbagliato: tutte queste società sono state comprate con il debito bancario. Il gruppo era quindi sottoposto ai ricatti delle banche o comunque stava in piedi finché queste lo hanno sostenuto».
Nel luglio del 2009 gli operai della New Fabris di Chatellerault disseminano lo stabilimento francese del gruppo Zen/Garro di bombole di gas collegate tra loro, minacciando di farlo saltare in aria nel caso di mancato pagamento delle indennità. In Italia, invece, i circa 200 operai delle Fonderie Zen finiscono in cassa integrazione a rotazione e, da fine settembre a metà novembre, organizzano un presidio permanente davanti ai cancelli dell’impianto. Verrà a visitarli anche l’allora segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani. Le nottate passate al freddo sotto il gazebo, riscaldate unicamente dalle fiamme provenienti dai bidoni, hanno un fine molto pragmatico: evitare la sottrazione degli stampi per le colate, strumenti fondamentali per la produzione. «Portare via gli stampi – aveva dichiarato all’epoca Antonio Silvestri, segretario della Fiom-Cgil di Padova – è come portare via una cucina da un ristorante. Vuol dire chiudere per non riaprire più».
Mentre il Tribunale di Treviso dichiara il fallimento di Fonderie del Montello, l’amministrazione straordinaria della Zen produce i suoi primi frutti. Operando senza il supporto delle banche e con l’aiuto dei clienti (su tutti la Fiat), già alla fine del 2010 le Fonderie ottengono un risultato positivo di bilancio senza bruciare cassa. I dipendenti – che prima della crisi erano quasi 260 – capiscono la gravità della situazione e si autoriducono gli stipendi. «Io sono venuto qui con lo spirito di riavviare l’attività, non di liquidare l’azienda», racconta Cusumano. «Questo probabilmente ha dato fastidio in giro. Diciamo che c’era un interesse a 360 gradi, soprattutto della politica. La Zen può essere interessante da un punto di vista immobiliare. Quando ero arrivato Garro mi ha detto: “Si ricordi che lei è seduto su 50 milioni di valore di area”».
L’impianto, infatti, sorge in una zona strategica dove recentemente sono stati edificati numerosi centri commerciali. Già nel marzo 2009 Andrea Canton, consigliere comunale del Pd, riportava in Comune alcune voci sulla «possibile riqualificazione» dell’area «con cambio di destinazione d’uso a commerciale-direzionale». Nell’ottobre dello stesso anno Paolo Benvegnù, segretario provinciale di Rifondazione Comunista, aveva avvertito: «Hanno cercato di fare i furbi, ma gli è andata male. Il sospetto è che, con la scusa della crisi, su questa fabbrica si voglia fare la più grossa speculazione edilizia degli ultimi anni». Tale sospetto è stato nutrito anche dal commissario straordinario, che confida di aver avuto «la sensazione che dietro ci fosse la speranza che Zen fallisse».
Nella seconda metà del 2011 – riassorbite tutte le maestranze e raddoppiato il fatturato (che ora si attesta sui 27/28 milioni di euro) – alcuni gruppi internazionali si mostrano interessati al rilevamento dell’azienda. Le trattative, però, si arenano durante l’estate. I potenziali acquirenti si defilano, complice un calo nella produzione della fabbrica e, soprattutto, l’immagine dell’Italia. «Il rischio paese era troppo elevato», afferma Cusumano. Con l’amministrazione straordinaria agli sgoccioli e nessuna acquisizione in vista, la prospettiva di portare i libri in tribunale torna drammaticamente ad affacciarsi sulla vita delle Fonderie Zen. Ed è proprio in questo contesto che matura l’idea di «riprendersi» la fabbrica dall’interno. Nel dicembre 2011 vengono così costituite la srl GDZ, formata da manager e alcuni dipendenti di alto livello, e la Cooperativa Lavoratori Fonditori, (CLF), guidata dall’operaio e sindacalista Fiom Marco Distefano). Il capitale sociale di quest’ultima proviene interamente da una quota del Tfr (2000 euro) a cui 120 dipendenti hanno rinunciato. Ad affiancare le due società probabilmente ci saranno anche due fondi d’investimento, orientati ad acquisire una partecipazione societaria. La proposta, approvata il 1 febbraio 2012 dal Ministero dello Sviluppo Economico, prevede il mantenimento dell’occupazione per circa 140 dipendenti, di cui poco meno della metà sono extracomunitari.
Michele Prà, che lavora nelle Fonderie Zen dal 1978 e ora fa parte di GDZ, descrive la dinamica che ha portato a quello che lui definisce “un esperimento societario”: «Negli ultimi due anni, pur sotto l’ombrello dell’amministrazione straordinaria, di fatto l’azienda l’abbiamo portata avanti noi. Quindi abbiamo deciso di provarci, ecco. Appena passerà il periodo di attesa, se non ci saranno ulteriori controfferte migliorative, andremo avanti». Dal canto loro, le tute blu interpellate da Linkiesta sono tutte molto fiduciose. Sandro Schiavo, operaio trentacinquenne che fa parte del cda della CLF, spiega perché hanno scelto di fare la cooperativa: «Vorremmo entrare nella gestione dell’azienda e avere un peso anche a livello decisionale, negli investimenti e nella governance. Ci crediamo molto, per noi è l’unica prospettiva».
Al momento, comunque, è ancora tutto in fieri. La cooperativa si riunisce in uno stanzino, sovrastato da quattro imponenti silos bianchi, che sembra uscito da un film di Elio Petri. Sopra la maniglia nera della porta d’ingresso è attaccato un adesivo che recita «Sala Leningrado». All’interno ci sono molte bandiere della Fiom accatastate in un angolo o appese al muro, una piccola illustrazione di Che Guevara attaccata alla parete, foto di varie manifestazioni e ritagli di giornali locali che narrano le battaglie sindacali portate avanti dalla Rsu delle Fonderie nei primi anni 2000. Appoggiato per terra c’è anche un cartellone usurato dal tempo in cui si legge: «Marciare per non marcire / la Zen non vuole morire». È lo stesso che durante i presidi del 2009 era fissato ad uno dei cancelli della fabbrica.
«Eravamo veramente alla canna del gas» dice Schiavo, sorridendo amaramente. «Ho vissuto questo periodo con grande incertezza e poche prospettive chiare per il futuro. Avevo iniziato a sistemare casa per andare a convivere con la mia ragazza. Avevamo anche pensato di sposarci, però le risorse non sono un granché. La triste realtà è che non c’è l’autosufficienza economica per creare una famiglia». Prima di andare a cambiarsi negli spogliatoi, Schiavo precisa: «Serve una terza gamba, quella degli investitori privati. Serve qualcuno che creda in questa avventura e che finanzi a tasso agevolato questo tipo di imprese. Non credo che con i soldi del nostro capitale possiamo andare molto lontano».
Ferdinando Barbin, dipendente delle Fonderie di 51 anni, ha da poco finito il turno ed indossa ancora la tuta con lo stemma della Zen. Ricorda perfettamente l’atmosfera che si respirava due anni fa: «Siamo passati dalla tranquillità a doverci confrontare con la parola fallimento, il terrore della chiusura e della perdita del posto di lavoro. È stato un momento traumatico e di non poco conto». Cosa l’ha spinto a resistere? «Mia figlia di 18 anni. Non è per me che combatto: è dal ’77 che lavoro, posso anche ritenermi soddisfatto del mio traguardo. Quello che veramente mi preoccupa è il futuro di mia figlia». L’operaio fa una lunga pausa e aggiunge: «Mi vergogno. Mi vergogno perché i miei genitori e la generazione prima di me mi hanno lasciato in certe condizioni. Io invece lascerò in condizioni peggiori».
Non è la prima volta che in Veneto – e più precisamente nel padovano – si sperimentano soluzioni del genere. Molti anni fa due aziende di minuterie metalliche, Capica (che fisicamente è proprio di fianco alla Zen) e Zetronic, avevano intrapreso questa strada. Ma se in tali casi si può parlare di autogestione, il nuovo modello imprenditoriale delle Fonderie Zen si avvicina più alla cogestione tedesca che alla fábrica recuperada argentina. In un’intervista a Il Sole 24 Ore del 2010, Giuseppe Vita, una carriera professionale sviluppatasi tra Italia e Germania, ha sottolineato che «l’aspetto chiave della Mitbestimmung [cogestione in tedesco, nda] è l’informazione. I rappresentanti dei lavoratori sono tenuti informati della gestione della società, delle sue eventuali difficoltà o successi, dell’andamento dei conti. Sono stipendiati dall’azienda, hanno un proprio ufficio e una segreteria. Il libero accesso alle informazioni crea tra i dirigenti dell’impresa e i rappresentanti dei dipendenti una certa corresponsabilità».
Fuori dalla «sede» della Cooperativa, grossi camion entrano ed escono dalla fabbrica e gli operai si danno il cambio. Ferdinando Barbin, che deve andare in mensa per la pausa pranzo, si congeda scherzando: «Se faccio sei all’enalotto, io una quota qui la metterei». Il ronzio dei macchinari e dei forni è costante. Il forte odore di metallo fuso invade le narici. Sulla bacheca di fianco alla portineria campeggia un fotomontaggio della recente copertina di Time dedicata a Mario Monti. Al posto del volto del Presidente del Consiglio c’è quello di Marco Distefano. Il titolo è lo stesso: «Can this man save Italy»? Insieme al presidente della cooperativa, alle Fonderie Zen tutti credono fermamente in questa impresa. Bisogna vedere se il mercato condividerà il medesimo entusiasmo.