Incontriamo Romano Prodi nella sede della sua Fondazione per la collaborazione tra i Popoli, durante una pausa del suo pellegrinare da una parte all’altra del mondo. L’ex presidente della Commissione europea e del Consiglio è infatti reduce da un viaggio a Seoul per una conferenza internazionale e in partenza per gli Usa, dove svolgerà un periodo di insegnamento alla Brown University. È di ottimo umore. Porge un paio di tabelle che chiariscono inequivocabilmente l’abisso quantitativo e qualitativo tra la specializzazione italiana e quella tedesca. «Guardi qui, guardi qui», è il suo pressante invito a visionare i grafici (che riproduciamo qui sotto, cliccate per ingrandire). «Da suicidio!», è il suo commento. Il tempo di una telefonata con la moglie di Helmut Kohl e inizia l’intervista, propiziata dalla fine del viaggio de Linkiesta nella manifattura italiana.
Presidente, dal suo osservatorio privilegiato, come giudica lo stato di salute del nostro sistema produttivo?
In generale e come emerge dagli stessi dati che avete riportato nel vostro viaggio nella manifattura, perdiamo quote di mercato. Come trend storico di lungo periodo, arretriamo. Basti pensare che la quota di export italiano, che nel 2002 era pari al 3,9%, del totale mondiale è ormai attorno al 2,8%. Questo, da un lato si spiega con il protagonismo delle economie emergenti e dei cosiddetti Brics e dunque con il fatto che la “torta” viene mangiata da più bocche…
E dall’altro lato?
Beh, ciò che allarma è che il ridimensionamento italiano è più marcato rispetto a quello di altri paesi concorrenti. Soprattutto mi preoccupa il fatto che perdiamo corposamente e continuamente quote di mercato nei confronti della Germania. Riteniamo giustamente un nostro merito quello di mantenere ancora, a differenza di Francia e Gran Bretagna, una rete industriale diffusa ma gli ultimi anni dimostrano che molte maglie di questa rete sono estremamente deboli.
Con l’aggravante che, come ha messo in evidenza Prometeia, la ripresa del mercato interno appare lontana…
In effetti il problema della tenuta competitiva della nostra industria si pone con ancora più violenza, se mi è permesso usare un termine così forte, in un paese come il nostro, dove il mercato interno non solo ha avuto dei crolli molto forti, ma non manifesta segnali di ripresa. Quindi l’arretramento sul mercato esterno porta con sé una perdita in assoluto della nostra capacità produttiva, di cui si trae conferma dalla diminuzione del numero delle imprese attive ma soprattutto dal numero degli occupati, che rappresenta per me un elemento di grande preoccupazione.
Però abbiamo sentito sostenere da più parti, anche in tempi recenti, che il terziario, in particolare quello avanzato, avrebbe potuto compensare il dimagrimento del manifatturiero…
In effetti si riteneva che il terziario avrebbe assorbito le eccedenze del manifatturiero. È vero che la rivoluzione informatica crea nuovi servizi e quindi anche nuovo lavoro ma questo non compensa, nel prevedibile futuro, ciò che si perde nella manifattura. Teniamo bene in testa che questa rivoluzione è diversa dalla altre, perché la rivoluzione informatica non riassorbe la manodopera che espelle l’industria. Perché l’espulsione riguarda tutta la filiera produttiva, che va dalle catene di montaggio, agli uffici amministrativi, agli studi legali e commerciali, al sistema dei trasporti, agli sportelli bancari, allo stesso terziario a servizio dell’industria. Di fronte a questa espulsione, le nuove attività si mostrano fino ad ora quantitativamente più limitate. In molti casi esse esigono specializzazioni che noi non siamo ancora in grado di offrire in quantità sufficiente.
I distretti sembrano aver retto meglio, non solo sul fronte della tenuta occupazionale, i contraccolpi della crisi.
Certo, ma bisogna prestare attenzione al fatto che i distretti non sono più quelli di un tempo. Hanno effettivamente retto meglio perché in fondo era già finito il processo di moltiplicazione delle imprese ed era cominciato una fase di selezione nella quale le imprese maggiori e meglio gestite hanno assorbito le altre. In altri casi interi distretti sono quasi scomparsi. Il distretto come moltiplicatore di imprese identiche tra di loro o come meccano industriale in cui si costruisce la supply chain sta tramontando, proprio perchè la supply chain ha ormai un ambito molto più vasto ed è difficilmente “distrettabile”.
Dunque anche il modello distretto, nel mercato globale, sta mostrando i propri limiti perché nuovi distretti, di dimensioni assai più ampie e con integrazioni più forti stanno prevalendo nella scena europea. Pensiamo a quanto avviene in molteplici settori nei rapporti fra la Germania e i nuovi membri dell’Unione europea con essa confinanti.
Ma perché soffriamo più di altri nell’adattamento al mercato globale?
C’è da rilevare un primo grande problema strutturale, rappresentato dalle dimensioni aziendali. Ma non perché il piccolo, prima bello, sia diventato brutto. Le piccole imprese sono ancora la nostra forza, ma quando esaminiamo la produttività delle imprese medie europee con oltre 250 addetti, vediamo che questa è superiore del 30-40% rispetto alla produttività media espressa dalle mini-imprese con meno di 20 addetti. Siamo di fronte ad un divario strutturale al quale dobbiamo porre rimedio nel più breve spazio di tempo possibile.
Piccolo è bello è stato però il refrain che abbiamo sentito ripetere negli ultimi 20 anni.
Certo, ma questo ormai riguarda il passato e noi abbiamo l’obbligo di pensare al futuro. Dunque la mia osservazione sulla dimensione aziendale attiene al futuro. È ormai evidente che se noi dobbiamo sempre più proiettarci sui mercati mondiali, con la piccola dimensione aziendale non reggiamo la concorrenza! Ed allora nasce un primo obiettivo di politica industriale: basta con la moltiplicazione ad ogni costo delle imprese. Abbiamo bisogno di perseguire un duplice obiettivo. Il primo è quello di orientarci verso un’incentivazione selettiva delle imprese. Abbiamo soprattutto bisogno di starter ad alta tecnologia, di nuove imprese caratterizzate solitamente da una mortalità molto elevata ma in grado di fare sopravvivere e crescere quelle capaci di agganciare strutturalmente l’innovazione. Il secondo obiettivo è quello di fare crescere con tutti gli strumenti possibili le imprese esistenti. Questo per aumentare la produttività del sistema e per essere presenti in tutti i mercati mondiali. O si è globali o non si esiste!
Oltre che di dimensioni aziendali maggiori, di cosa abbiamo bisogno per risalire la china?
Di dosi massicce di innovazione, ricerca e sviluppo, di rapporti più stretti con l’università, così come di strumenti per incoraggiare le fusioni, le incorporazioni… Questo tocca anche il tema del lavoro. Vanno infatti tolti tutti gli svantaggi che oggi si frappongono alla crescita delle imprese. Durante gli ultimi decenni, per motivi di ordine sociale o per effettive opportunità economiche, è stato ritenuto conveniente dare priorità alla moltiplicazione più che all’aumento dimensionale delle imprese. Inoltre, in un paese che fondava la sua competitività sulla svalutazione della propria moneta, nessuno era disposto a impostare la strategia aziendale sulla crescita di lungo periodo dell’impresa. In tale modo ci siamo spiazzati rispetto alle sfide imposte dal mercato globale.
Questo indirizzo rischia però di cozzare con la dimensione famigliare delle nostre imprese.
È evidente che questa prospettiva non può non influenzare il tema dell’impresa famigliare: non è più possibile assistere al fenomeno per cui ad ogni passaggio di generazione, o anche nella stessa generazione, l’impresa famigliare viene turbata dalla necessità di riorganizzazione e ristrutturazione del patrimonio e del potere. La vita delle nostre imprese è troppo frequentemente turbata dalle diversità di prospettive o dalle tensioni esistenti fra fratelli o parenti e la crescita viene altrettanto spesso turbata dal passaggio di responsabilità a figli che non sono in grado o non vogliono fare fronte al compito che viene a loro affidato.
Lei tocca un vero e proprio nervo scoperto dell’imprenditoria italiana.
Guardi, questo è un fatto di una importanza enorme perchè in effetti riguarda la maggior parte delle imprese italiane. Bisogna però imprimersi nella mente che l’impresa è proprietà di privati, ma anche un patrimonio della società, dell’intera comunità. Bisogna perciò facilitare e rendere conveniente la creazione di strutture stabili, come le fondazioni, sull’esempio di quanto frequentemente avviene in Germania. Anche nell’impresa famigliare vi è sempre la necessità di spingere verso una gestione manageriale e verso il contributo esterno nella conduzione aziendale. L’impresa ha bisogno di continuità, di visione aperta alle istanze globali e alla professionalità. Non voglio essere volgare, ma più ci allontaniamo dal modulo impresa povera-famiglia ricca per andare verso il modulo di impresa ricca-famiglia ricca, più facciamo un servizio al Paese.
Per fare ciò, Presidente, non mancherebbero nemmeno le risorse, visti i 25-27 miliardi che ogni anno vengono distribuiti al mondo delle imprese.
Come vede io non sono qui a parlarle di sussidi e incentivi. Si tratta invece di riorientare l’uso delle risorse già presenti nel bilancio dello Stato, risorse che finiscono in mille rivoli senza una ben precisa finalità. Le risorse vanno dunque indirizzate a favore dell’innalzamento qualitativo e della crescita delle imprese. Dovrebbe essere interesse del mondo produttivo ridiscutere l’utilità dei mille sussidi esistenti per indirizzarli verso gli obiettivi elencati in precedenza.
Punto e a capo, insomma, anche per l’industria dell’auto, che tanto ha avuto anche recentemente dallo Stato, nonostante il suo valore aggiunto sia ormai la metà di quello prodotto dall’industria tessile.
Lei ha ragione lei nel dire che l’auto non è più motore dominante dell’Italia. Ricordiamoci però che la bilancia commerciale del settore dell’automobile è di una importanza vitale per ogni Paese e ancora più dell’Italia che è il secondo mercato europeo del settore. Il deficit che ogni anno accumuliamo nel settore dell’auto è un macigno che grava sulle spalle del nostro Paese. Ove Fiat non voglia o non possa ricoprire il ruolo che deve ricoprire, dobbiamo cercare di fare in modo di creare le condizioni perchè altri protagonisti possano operare nel nostro Paese. Capisco come quest’operazione sia molto difficile in un momento storico in cui in Europa vi è un’enorme capacità produttiva in eccesso. Tuttavia, non possiamo passivamente accettare di vivere in un’anomalia per cui non abbiamo produttori nazionali che coprono la gran parte del mercato, come in Germania o in Francia, e non abbiamo i produttori stranieri che operano nel nostro mercato, come in Spagna o in Gran Bretagna. Siamo nudi da entrambi i lati!
Marchionne continua però a sostenere che è sempre più difficile produrre in Italia.
È chiaro che bisognerà fare gli adattamenti necessari perché possa rinascere la convenienza a produrre in Italia. Per raggiungere quest’obiettivo abbiamo tanti passi da compiere in termini di tecnologia e di organizzazione del lavoro. Tuttavia non possiamo trascurare quanto emerge dalle statistiche che la stessa Fiat ha pubblicato e cioè che abbiamo un costo del lavoro orario nettamente concorrenziale rispetto agli altri grandi competitors europei. E quando dico nettamente concorrenziale, non parlo solo di salario, in cui addirittura c’è una distanza abissale, ma di costo effettivo dell’ora lavorata.
Se è congruo il costo del lavoro, su cui però si è concentrato il dibattito sul futuro dell’industria dell’auto ma più complessivamente del sistema produttivo, di cosa c’è bisogno?
Vede, il settore auto diventa parametrico per i problemi dell’industria italiana, che ha bisogno di recuperare una maggiore produttività, nonché di aggiungere innovazione di processo e ottimizzazione nell’utilizzo degli impianti. Oggi mi sembra tuttavia prioritaria l’innovazione di prodotto, che adesso manca. L’idea che non si debbano produrre nuovi modelli quando il mercato va male è un’idea suicida. Quando si sono perse quote di mercato e si è dovuta di conseguenza restringere l’efficienza e la dimensione della produzione e della distribuzione, diventa impossibile raggiungere risultati positivi.
Insomma innovare è un must, a maggior ragione in tempi di crisi.
È bene convincerci definitivamente che il tema dell’innovazione non è marginale nel settore dell’automobile, visto che ormai più di un quarto del costo di un’auto è elettronica ed ovunque si stanno preparando innovazioni radicali. Non sto parlando solo di Germania, di Detroit o del Giappone, ma alludo, ad esempio, a laboratori, come quello di Hyunday-Kia che ho visitato le scorse settimane e che stanno lavorando a pieno ritmo per l’auto del futuro.
E in tutto ciò Fiat che ruolo può svolgere?
È chiaro che ci si attende dalla Fiat che essa, come ogni grande azienda che si rispetti, contribuisca a preparare il nostro futuro. Certo la Fiat ha tutto il diritto di pretendere dei rendimenti negli stabilimenti italiani paragonabili a quelli di altri Paesi, ma non possiamo permetterci di perdere un patrimonio ingegneristico che è stato effettivamente pregevole per lunghissimi anni e che ha prodotto innovazioni uniche tanto nella componentistica quanto nel rendimento dei motori. Vi è ancora un distretto innovativo dell’automobile italiana che va ulteriormente sviluppato, raffinato e rafforzato perché quando le sinergie di un settore produttivo vengono distrutte, sono perdute per sempre.
È insomma da scongiurare una fuga di Fiat dall’Italia.
L’industria dell’auto è ancora fortemente emblematica dell’immagine produttiva del Paese e l’eccellenza del settore dell’auto è essenziale per rialzare l’immagine dell’intero Paese. Quanto sia importante l’immagine-Paese l’ho potuto verificare anche recentemente quando ho dovuto constatare che un prodotto meccanico con l’etichetta Made in Germany veniva venduto a un prezzo del 20% superiore rispetto allo stesso identico prodotto venduto con la scritta Made in Italy. L’automobile non è infatti solo un prodotto essenziale per la bilancia commerciale, ma fondamentale per costruire il pacchetto dell’immagine-Paese.
Un’immagine piuttosto deteriorata, peraltro.
A questa debolezza viene in parte posto rimedio dalle nostre marche di lusso del mercato dell’auto e della motocicletta, ma, a parte la limitatezza del loro fatturato, esse stanno scivolando in mano agli stranieri, come è avvenuto per la Lamborghini e come pare stia accadendo in questi giorni per la Ducati. Questo succede perchè imprese straniere, in questi casi tedesche, hanno una profittabilità tale da essere in condizione di acquistare le imprese che fanno immagine anche se esse sono valutate a prezzi elevatissimi.
Certo dall’auto non si può prescindere, ma l’analisi comparativa di Sergio De Nardis (i grafici sopra) sulla specializzazione industriale offre interessanti chiavi di lettura su dove concentrare le azioni di politica industriale.
Sono convinto che politica industriale significa, nell’assoluto rispetto delle regole comunitarie, anche scegliere selettivamente di investire in settori che possano dare maggiore spinta all’export italiano. Se andiamo ad analizzare il confronto di specializzazione produttiva tra Italia e Germania, vengono i brividi; emerge, oltre al fatto che la Germania ha distribuito il rischio in una quantità molto maggiore di sottosettori, che noi abbiamo una sovraspecializzazione in settori decisamente più fragili, dove molto del fatturato realizzato da imprese che ancora hanno marchio e parte della manifattura in Italia, ma una proprietà e una elevata quota di manifattura all’estero.
In che ambiti dunque investire e concentrare la politica industriale?
Ci sono settori innovativi che non richiedono capitali enormi come le biotecnologie e il software, nei quali l’Italia può avere buone possibilità. Credo però che la politica industriale vada indirizzata anche nella meccanica strumentale, che esige una manodopera complessa e raffinata e che quindi è più lenta ad essere imitata. In questo senso è emblematico il successo, ad esempio, delle macchine strumentali per la lavorazione della lamiera, del marmo, delle piastrelle, dell’imballaggio. Tutti settori, questi, in cui noi abbiamo ancora una quota rilevante del mercato mondiale, nei quali non vi è nessuna tecnologia da premio Nobel, ma che hanno la caratteristica, unica, di dovere mettere assieme meccanica, elettronica, oleodinamica e scienza dei materiali: un insieme di tecnologie raffinate, condite in una non eludibile necessità di learning by doing di elevato livello.
Il che presuppone forse una considerazione diversa della scuola tecnica.
Quello della necessaria valorizzazione della scuola tecnica è l’ulteriore capitolo di una buona politica industriale. Noi dobbiamo riqualificare le risorse umane che abbiamo a disposizione. Purtroppo abbiamo per anni percorso il cammino inverso. Fortunatamente nell’ultimo anno le iscrizioni alle scuole tecniche sembrano risalire la china. Le famiglie italiane dimostrano così di avere buon senso, ma fino a pochi mesi avevo la forte sensazione che ormai fossimo di fronte ad una sorta di nuovo dramma nazionale: quello di considerare la scuole tecniche come istituti per i figli degli immigrati ed in generale di serie b. Teniamoci ben fisso nella testa che le scuole tecniche sono il nostro bene più prezioso e sono il presupposto della prosperità della nostra economia.
Lei come immagina di valorizzarne questa fondamentale funzione?
Due provvedimenti devono essere immediati: introdurre uno-due anni aggiuntivi di specializzazione dopo l’attuale scuola tecnica, sulla falsariga della Fachhochschule tedesca e stabilire in modo crescente delle sezioni in cui, sin dal primo anno, si insegni esclusivamente in lingua inglese. Comprendo che ciò possa apparire una provocazione, ma quelli che salvano l’industria italiana sono i nostri tecnici che troviamo in ogni parte del mondo e che hanno bisogno della lingua inglese come hanno bisogno della chiave inglese.
Però il Paese ha pure un deficit di laureati in materie tecnico-scientiche.
Parallelamente, in effetti, non vedo perchè non dobbiamo dare incentivi economici superiori o disincentivi economici o pesi inferiori agli studenti universitari che frequentano facoltà tecniche e scientifiche, che sono indispensabili per il nostro futuro e che sono anche oggi una risorsa scarsa. Si tratta in sostanza di riorientare le scelte degli studenti secondo gli interessi generali del Paese, attraverso meccanismi incentivanti che non solo sono leciti ma doverosi. Essi costituiscono un altro pezzo essenziale di una nuova politica industriale.
Il viaggio de Linkiesta nella manifattura ha messo in evidenza non solo che la meccanica, fortemente imperniata su figure tecniche, regge la concorrenza meglio di altri settori, ma pure il fatto che sono driver fondamentali di crescita, anche in tempi di crisi, ricerca e sviluppo, la cui spesa però è ancora molto bassa.
È ben noto che la spesa pubblica in ricerca e sviluppo è molto bassa, ma quella privata è quasi inesistente. Ciò dipende in buona parte dalla dimensione dell’impresa o dal settore in cui questa opera. Ma anche dal fatto che il rapporto tra università, laboratori pubblici e industrie è sottosviluppato rispetto alle necessità e che la funzione di ricerca e sviluppo nell’ambito dell’impresa è abitualmente secondaria. I ricercatori o non esistono o, se esistono, non fanno carriera. In alcuni casi perchè l’impresa non se la può permettere, in altri perché la ricerca non appartiene alla cultura dell’imprenditore o dell’ambiente in cui l’imprenditore opera. Disastroso è anche il fatto che la ricerca applicata non sempre è vista di buon occhio in ambito accademico.
Forse dunque c’è anche un problema di strumenti che favoriscano l’applicazione della ricerca direttamente nelle aziende.
Anche su tale aspetto non c’è nulla da inventare. Basterebbe semplicemente copiare l’esperienza del Fraunhofer Institut tedesco, adattandone la strategia alle necessità del sistema industriale italiano. Pensi che il Fraunhofer opera attraverso 80 sedi, che sviluppano ogni anno ricerca applicata per 1,8 milioni di euro, di cui 1,5 derivano da contatti di ricerca con aziende. Fare politica industriale significa dunque immaginarsi una evoluzione della nostra politica di ricerca verso queste direzioni.
Una politica industriale, come lei sta delineando, richiede dei policy makers adeguati.
Certo richiede innanzitutto una comprensione del problema e un cortocircuito virtuoso tra Governo e mondo della produzione a partire dalla Confindustria. Ma occorre anche incidere sul costo di alcuni fattori riguardo ai quali siamo effettivamente anomali rispetto ai concorrenti europei. Tra queste anomalie spicca per importanza il costo dell’energia. È un problema ampiamente sottovalutato: discutiamo molto del costo della manodopera, ma ignoriamo che ci sono molti settori in cui l’energia incide più della manodopera! Ed allora non possiamo più permetterci di appesantire i costi di approvvigionamento dell’energia e scaricarli semplicemente sulla bolletta. Dobbiamo assolutamente diffondere le energie alternative, ma non scaricandone il costo sul bilancio energetico delle imprese.
Resta il fatto che l’energia costa mediamente il 30% in più rispetto ad altri Paesi europei.
Però non è solo liberalizzando il mercato che si abbassano i costi. Ed allora veniamo al dibattito attuale, che è assolutamente ingannevole, nel senso che si fa credere alla gente che, grazie ad alcune liberalizzazioni minori, si mette a posto il nostro sistema economico e per giunta si fanno delle battaglie epiche per problemi che non sono altrettanto grandi. Per carità, ben vengano le liberalizzazioni, quelle maggiori e quelle minori, ma non illudiamoci che siano sufficienti a rimetterci nel gioco competitivo!
Un gioco che peraltro si svolge su uno scacchiere sovranazionale sempre più allargato.
In tale ottica c’è allora un altro problema di politica industriale, parzialmente italiano, su cui dobbiamo fare una seria riflessione: quello dell’evoluzione della supply chain, la catena di distribuzione. Se è chiaro che ogni sistema industriale nazionale si salva solo in quanto parte di un sistema industriale continentale, è evidente che la nostra supply chain va ripensata. Ripensare la supply chain italiana, che in taluni casi, come quello di alcuni distretti, può essere autosufficiente, ma che in molti altri casi, come quello dell’elettronica, non può essere autosufficiente, significa farla diventare europea, ma con legami mondiali. Attenzione che quando si perde la supply chain sofisticata, crolla tutto. Nell’auto sono ormai i tedeschi che stanno organizzando attorno alla loro industria una formidabile supply chain. Ecco perché, settore per settore, bisogna costruire una supply chain europea ma con un’Italia capace di contribuire attivamente a questa costruzione.
Presidente, torniamo a un tema completamente italiano: rispetto al peso della burocrazia che incide negativamente sulla capacità competitiva delle nostre imprese, qual è la sua opinione?
Credo sia illusorio ritenere di risolvere il problema automatizzando la Pubblica Amministrazione ma continuando a condizionare ogni decisione all’approvazione di decine di organismi diversi. In tal modo si trasforma un semplice iter in una vera e propria via crucis al limite della persecuzione: è questo il vero problema! Si deve far finire questa anomalia, che non ha eguali in Europa, ma non tanto costituendo uno sportello unico, bensì abolendo drasticamente il numero dei passaggi burocratici. Molto meglio avere un controllo serio, fatto da un’unica autorità responsabile, che 50 controlli fatti da altrettante autorità, ciascuna delle quali viene automaticamente deresponsabilizzata.
Tutto ciò contribuisce peraltro a rendere poco attrattivo il Paese per chi, dall’estero, vi voglia investire.
Quello dell’attrazione di investimenti esteri è un problema serio, fondamentale tra i nodi che una politica industriale deve affrontare, anche perché ritengo che nessun sistema industriale si regga senza un altissimo livello di investimenti stranieri. Ebbene, noi abbiamo investitori che comprano aziende, al fine di comprare un marchio o una quota di mercato, ma nessun investimento greenfield (che parta cioè da zero; ndr), di cui avremmo tanto bisogno. Ciò a causa della pesantezza della burocrazia, delle tensioni sindacali, della lentezza della giustizia, ma soprattutto della criminalità. Rendiamoci conto che quando si parla di investimenti greenfield, la convenienza all’investimento si misura in giorni, non in quinquenni o decenni, ossia nei tempi biblici a cui siamo abituati. Il mancato investimento della British Gas a Brindisi è solo un esempio di cosa significa essere poco attrattivi per gli investimenti esteri in conseguenza dell’incapacità di prendere delle decisioni.